In Una piccola fine del mondo. Intorno alla crisi psicotica (2025), lo psichiatra Paolo Milone, riprendendo dai suoi lavori precedenti l’assunto per il quale l’esperienza psicotica non possa essere descritta solo come un’esperienza razionale o unicamente mediante un linguaggio analitico-scientifico, esplora alcuni vissuti psicotici servendosi di un linguaggio narrativo in grado di far affiorare – tanto in chi racconta quanto in chi ascolta – spazi e tempi interiori.

I micro-pensieri di Milone, espressi sotto forma di aforismi, versi poetici o paragrafi dal tono diaristico e romanzesco, condensano, senza filtri, quarant’anni di vita in un reparto di psichiatria d’urgenza, rivelando le fragilità dei pazienti psicotici e, con uguale lucidità, anche quelle dello psichiatra. La voce di Milone, pubblica e mediatrice, analizza l’esperienza psicotica non come un fenomeno raro o clinicamente astratto, ma come un evento concreto che irrompe ogni anno con tragica regolarità nella vita quotidiana di centinaia di persone.

Al centro dell’opera vi è la domanda: quali sono i vissuti di una persona durante una crisi psicotica? La tensione conoscitiva si scontra con la mutacità della psicosi: che sia un episodio dissociativo di origine mentale o organica, esso interrompe bruscamente il legame tra la parola e la persona rendendo impossibile reperire memorie, testimonianze e informazioni dal paziente. Ricostruire l’esperienza psicotica diviene condurre il lavoro del ragno:

La psicosi è un mondo immenso, senza parola: su che base si può scrivere un racconto, tracciare una mappa? La base sono le testimonianze sfilacciate dei pazienti, le quali costituiscono una specie di filo di una ragnatela che si stende nel vuoto, alla ricerca di un successivo appiglio a cui agganciarsi. Questi fili ondeggiano nel grande nulla, ogni tanto si incontrano e costituiscono un incrocio, un nodo, il germoglio di una trama. La ragnatela si allarga leggera ed evanescente. Il nostro è il lavoro del ragno (Milone 2025, p. 95).

L’opacità e l’impermeabilità della psicosi la rendono inaccessibile all’empatia: chi non l’ha vissuta non può veramente immedesimarsi in chi la sta attraversando, né conoscerla dall’interno. L’unico modo per comprendere un vissuto psicotico è – come suggerisce Milone nel trentesimo aforisma de L’arte di legare le persone – guardare l’abisso con gli occhi dell’altro, predisponendosi ad un atto di ascolto radicale: una resa epistemica, umile e forse un po’ vigliacca, che non invada l’altro con la propria proiezione e che scongiuri la presunzione a credere di aver capito.

Pur nella diversità dei loro approcci clinici e delle rispettive esperienze professionali, l’opera di Milone trova punti di contatto con quella di Eugenio Borgna (che nel 2015 dà alle stampe un testo dal titolo Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica) e, in una prospettiva storica, con gli scritti di Mario Tobino. Gli psichiatri condividono un comune ricorso a forme espressive di natura diaristica e aforistica e, soprattutto, l’urgenza di assumere la funzione di voce narrante, mentre il paziente diviene voce narrata. Il medico si costituisce come un’istanza autobiografica che, attraverso un costante lavoro di rielaborazione testuale, stabilisce una relazione con l’alterità radicale rappresentata dalla malattia.  

Pertanto, solo intessendo come un ragno, lo psichiatra può accedere al funzionamento della mente e scoprire come avvengano le sue catastrofi. La prima parte del testo si concentra sull’essere sociale dell’uomo, sulla sua predisposizione biologica ed emotiva alla connessione con gli altri, per poi esplorare, a partire da questa tendenza a immedesimarci nell’altro, l’origine della psicosi. Tutto ha inizio quando si dissolve quella sottile pelle che ci separa dalle contingenze dell’esistente, facendoci scivolare nella percezione di un io diffuso, nella mancanza di un confine tra noi e il mondo: ciò provoca un inondamento di sentimenti (invidia, vergogna, solitudine, paura ecc.) e un’indistinzione tra i nostri vissuti e quelli degli altri. Attraversati e toccati dal mondo, ipersensibili ad ogni suo stimolo, tutto ci appare come una minaccia: i nostri genitori, i nostri amici più cari, fino a un panorama, alla musica, al vento.  

Significativo come Milone derivi il carattere apocalittico e catastrofico della psicosi dal suo essere aleatorio: «La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene» (Milone 2021, p. 23). Eludendo ogni logica predittiva, la scomparsa psicotica del sé appartiene alla registrazione dell’evento nella sua pura possibilità, giocandosi in un tiro di dadi. In L’arte di legare le persone, approfondendo le “logiche” psicotiche, l’autore paragona il vissuto psicotico all’ineluttabilità dell’esser gatto: «Ma se uno è nato gatto, è forse colpa dei genitori che sono gatti? Essere gatti è un fatto tragico, come tante altre faccende della vita» (ivi, p. 185). La gattità viene chiamata in causa per riflettere sulla tragicità insita in ogni forma di vita, dove per tragicità si intende il suo sottrarsi alla presa del calcolo e il darsi in ciò che accade nel mondo: così come nessuno decide di nascere gatto o umano, nessuno sceglie la psicosi. È la psicosi ad accadere.    

Per avvicinare il lettore all’esperienza psicotica, Milone affianca quasi ogni paragrafo ad alcuni componimenti poetici. L’autore sceglie la poesia perché, differentemente dal saggio scientifico o dal romanzo, è un linguaggio immanente che sospendendo ogni funzione comunicativa e informativa riesce a cogliere la psicosi nella sua manifestazione imprevedibile ed episodica. Se il dolore psicotico è arido e impoetico, il suo racconto, al contrario, deve essere poetico. Solo la poesia può “possedere” per pochi istanti la psicosi, sebbene non la conosca; solo la poesia può sospendere e esporre la lingua, «non dire solo ciò che dice, ma anche il fatto che lo sta dicendo, la potenza e l’impotenza di dirlo» (Agamben 2014, p. 56).

La scelta della forma poetica come modello espressivo non rappresenta un tentativo di romanticizzazione della “follia”: le principali critiche rivolte a Milone, infatti, non riguardano tanto una presunta romanticizzazione della psicosi, quanto l’uso di controverse pratiche di contenzione. A tal proposito, il titolo del testo L’arte di legare le persone assume una duplice valenza: da un lato allude alla relazione terapeutica tra paziente e psichiatra, dall’altro si riferisce alla pratica clinica del contenimento fisico dello schizofrenico in fase acuta. Milone descrive questa procedura nella sua cruda necessità, analizzandone le fasi operative, le contraddizioni emotive e le implicazioni politiche: il contenimento in psichiatria d’urgenza può rappresentare un atto terapeutico temporaneo, finalizzato a proteggere il paziente fino all’efficacia del trattamento farmacologico e al superamento della crisi. A suo parere, non si tratta di limitare la libertà, ma di ricomporre, attraverso un “abbraccio” materno, l’unità psichica frammentata, restituendo al paziente la propria integrità.

Il merito delle opere di Milone è di rivelare come la psichiatria, in quanto pratica etico-politica, nonostante il suo tragico contatto con un dolore inutile (e impoetico), possa e debba essere un fare poietico. La poesia è la lingua che può dire molteplici forme di esistenza: ciò che non è accessibile a tutti, ciò che resta illeggibile e inenarrabile. In questa prospettiva, poetare la psicosi è uno dei pochi modi (o forse unici) per dirne la sua realtà.

Che lingua utilizzare per dire la tragicità e l’implacabilità della follia? Una lingua poetica che sia

sporca, piena di buchi, una lingua puttana, bisbetica, una lingua zoppa e carogna […] Ci vorrebbero termini malandrini, termini assassini, termini folletto che afferrino realtà che non esistono, termini caleidoscopici che contengano realtà mutevoli, termini forchetta che inforchino realtà infinitesimali, termini ambigui che ognuno interpreti come vuole (Milone 2021, p. 171).

Riferimenti bibliografici        
G. Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Milano 2014.  
P. Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi, Torino 2021.

Paolo Milone, Una piccola fine del mondo. Intorno alla crisi psicotica, Einaudi, Torino 2025.

Tags     Agamben, Poesia, psicosi
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