Il successo del cinema coreano contemporaneo deriva in buona sostanza dall’adozione di un immaginario contaminato e di una forma satura di stilemi e codici, utilizzati ai limiti del pastiche. Non vengono solo ripresi blocchi tematico-espressivi o cristallizzazioni di immaginari già dati, ma questi elementi vengono mescolati per farne derivare un effetto de-realizzante ed in definitiva parodico, anche quando tutto finisce in tragedia, come in Una notte in paradiso di Park Hoon-jung.
Qui vediamo trapiantare una storia di gangster, di sensi di colpa laceranti e atroci vendette in una paradisiaca isola con tanto di palme, dove si rifugia Tae-gu dopo essersi vendicato dell’uccisione della sorella e della nipote avvenuta in un attentato. Una vendetta che avviene in una sauna, in una scena intensa che riprende topoi dell’immaginario cinematografico e teatrale (a partire dall’Otello di Shakespeare). L’atto di Tae-gu non permette mediazioni e tentennamenti, deve fuggire. Sull’isola incontrerà una ragazza, Jae-yeon, nipote dell’uomo che lo sta temporaneamente ospitando. La ragazza sta morendo per una malattia. E lo zio, anche lui gangster, che si sente in colpa per aver causato anni prima lo sterminio della famiglia della ragazza, vuole trovare i soldi per provare a salvarla facendola operare negli Stati Uniti.
Non ci sarà tempo, tutto inesorabilmente precipiterà. C’è tempo invece affinché Tae-gu e Jae-yeon si incontreranno, si cercheranno, si piaceranno, senza che accadrà nulla (la ragazza morirà vergine, sacrificata alla violenza nella quale ha sempre vissuto). E ci sarà tempo anche, per personaggi e regista, di abbandonarsi in attesa della fine alla contemplazione del mondo, alla visione di splendide spiagge con palme, alle pause riflessive guardando il mare, fumando una sigaretta, mangiando insieme zuppa di pesce nel ristorante più amato dalla ragazza. Tutto sembra sospeso, lontana la violenza, vicino invece il sentimento di essere insieme.
E poi i volti di Tae-gu e Jae-yeon hanno tratti delicati, e le loro camminate e le loro posture non sono da criminali. Hanno una intensità di sguardo e una densità di espressione che identificano una sofferenza depositata nel tempo: quella di voler uscire dal mondo in cui si trovano, sapendo di non poterci al fondo riuscire. Ma si cercano, si trovano, si guardano, al fondo attestano un essere dell’umano nella voglia di sottrazione ad un destino segnato da una violenza e da un tradimento continui, che non lasciano via d’uscita. Il desiderio di vivere segnato dalla malinconica consapevolezza di dover morire.
Ciò che il film presenta è uno scarto tra un essere dei due personaggi, depositato nei corpi, negli sguardi, nelle espressioni, nei gesti e nelle contemplazioni del paesaggio, e le azioni violente a cui sono costretti. L’azione non è mai libera in questo film, lo è semmai la contemplazione. Da questo scarto nasce l’effetto, anche ironico, del film.
E questo sarà chiaro nella parte finale. Tae-gu viene tradito dai suoi e inseguito sull’isola. Il film virerà verso l’action movie con inseguimenti autostradali, macchine cappottate, conflitti corpo a corpo, prima di raccogliersi nelle due scene finali al chiuso, che confermano come il paesaggio dell’isola paradisiaca viene risparmiato, viene sottratto allo scorrimento infinito di sangue che vediamo nel finale.
Ma c’è un’altra immagine che conferma la contemplazione esistenziale che attraversa il film. Prima che Tae-gu raggiunga il capannone dove i gangster tengono in ostaggio Jae-yon, lo vediamo fermarsi senza ragione, scendere dalla macchina ed osservare dei cavalli al pascolo (citazione da Giungla d’asfalto e preannuncio chiaro di morte). Nella lunga scena del capannone (dove ritornano situazioni da Reservoir Dogs di Tarantino), contrassegnata da violenza e scorrimento senza fine di sangue nei corpi segnati dall’affondo di coltelli, Tae-gu verrà ucciso davanti alla ragazza, che sarà risparmiata.
Ma le vendette non sono ancora finite, la faida continua. E questa volta sarà Jae-yon armata di pistola a raggiungere il gruppo di malviventi in un locale dove stanno ristorandosi e li ucciderà tutti uno per uno, vendicando la sua famiglia, lo zio, Tae-gu, prima di anticipare in riva al mare con un colpo di pistola quella che sarebbe stata la sua fine naturale.
La morte violenta è un destino segnato, il desiderio di vivere il contrassegno inesauribile dell’umano, di cui l’incontro amoroso ed incompiuto tra i due è traccia. Resta l’immagine splendida di una ragazza con la pistola in mano, che mentre spara piange: l’immagine di una impossibilità di fare altrimenti, pur desiderandolo; l’amore per la vita segnato dalla necessità della morte; l’aspirazione alla libertà interdetta da vincoli e gabbie inesorabili.
Una notte in paradiso. Regia: Park Hoon-jung; sceneggiatura: Park Hoon-jung; montaggio: Jang Lae-won; musica: Mowg; interpreti: Eom Tae-goo, Jeon Yeo-been, Cha Seoung-won, Lee Ki-young, Park Ho-san; produzione: Goldmoon Film (Park Hoon-Jung); distribuzione: Kim Whitney – Contents Panda; origine: Corea del Sud; durata: 131’.