Per le femmine il cervello
è un filo di capello.
[Prologo]. Le labbra di una donna non più giovane, le rughe scavate sul suo volto, gli occhi lucidi ma feroci in un primo piano strettissimo che lentamente allarga fino all’orecchio da dove capiamo che quelle parole secche e severe, quell’ammonimento che suona come ultimo questa donna lo sta rivolgendo, tramite il telefono, a sua figlia: “O con noi o con loro” le dice in dialetto calabrese. È la madre di Cetta, una delle tante donne appartenenti a una famiglia di ‘ndranghetisti, una delle poche (oggi non più così poche) ad aver scelto di ribellarsi, di intraprendere quel tortuoso percorso che va dal tradimento della propria famiglia alla collaborazione con la giustizia, con la mamma che cerca ora di far crollare la determinazione della donna muovendo sull’amore della figlia, la piccola Rosa: “Torna, così vedi pure la bambina, lo sai che non sta bene…”.
Che sia al femminile il sangue che scorre in quest’opera prima del regista calabrese Francesco Costabile lo dichiara, dopo il titolo – Una femmina –, già la prima sequenza con la figura maschile (Salvatore, il fratello di Cetta) che, minacciosa, rimane solo sullo sfondo, mentre si tessono unendosi indistricabilmente le storie di tre donne e, con loro, di tre generazioni: la nonna, Berta, una donna che accetta che sua figlia venga uccisa dai membri della famiglia e anzi ne diventa, a partire da questa telefonata, complice; una madre, Cetta, che, ritornata a casa dopo aver tradito la famiglia paga le conseguenze della sua ribellione e una figlia, la piccola Rosa, che osserva la terribile punizione inflitta alla mamma trattenendo la memoria traumatica che poi emergerà nel film a partire dal sostrato inconscio di questa prima, suggestiva, sequenza onirica in cui mentre i contorni sfumano in uno sfondo sfocato, piccole porzioni d’inquadratura mettono a fuoco gli indizi del dramma da compiersi, un imbuto lavato dalla nonna, gli orecchini di perle della mamma, le manine nascoste della figlia che sbucano dall’armadio.
[Primo atto]. Dopo il prologo, come in una tragedia greca in chiave calabra, seguiamo i momenti che porteranno Rosa ormai diventata ragazza alla sua presa di coscienza e al conseguente passaggio all’azione in tre atti: nel primo la vita di Rosa (Lina Siciliano) sembra scorrere monotona e tutto sommato serena tra le faccende domestiche e i piccoli lavoretti in paese a cui le donne delle famiglie di ‘ndrangheta vengono avviate, mentre fungono da testimoni silenziose dei traffici illeciti che avvengono in famiglia. Un primo elemento di turbamento del femminile arriva da Natale, il cugino di Rosa, un bambinone mai cresciuto che mentre gioca ad acchiapparello con Rosa si spinge a toccare la cugina lì dove non dovrebbe. Rosa reagisce, ma la sua rabbia non ha ancora la forza di stagliarsi contro lo zio, il capofamiglia: “Che è successo?” chiede Salvatore, “Nenti” risponde Rosa. Come negli episodi della tragedia, questo primo atto si chiude con uno stasimo, il canto del coro, qui in versione tarantella con tanto di serenata che, davanti a tutto il paese, il giovane Gianni (il bravissimo esordiente crotonese Mario Russo) rivolge all’amata Rosa.
[Secondo atto]. La memoria traumatica di Rosa riaffiora sempre più soprattutto quando un “incidente” commesso da Natale riporta Rosa nella casa di quando era bambina, lì dove la mamma “è stata suicidata”, come si potrebbe dire a proposito degli omicidi fatti passare per suicidi delle donne di ‘ndrangheta – come Maria Concetta Cacciola (la figura principale a cui si ispira il film) – che vengono avvelenate dagli stessi familiari con l’acido muriatico, un veleno che brucia da dentro le parole di quelle donne che non sarebbero dovute uscire fuori, perché “la migliore parola è quella che non esce” dirà a Rosa Don Ciccio, il capo della famiglia rivale. Una morte ben precisa, con un atroce valore simbolico: lavare via l’onta della famiglia che è stata tradita e disonorata.
Mentre comincia a ricordare, Rosa, come una moderna Antigone, vuole solo sapere dov’è stata sepolta la madre. E quando, sempre grazie all’aiuto di Gianni, trova la sua lapide al cimitero, scopre che alla mamma è stato negato persino il nome, ridotta a una donna senza identità, cancellata dalla memoria della famiglia. Il dolore di Rosa si trasforma in rabbia e la rabbia in vendetta. Replicando l’educazione che ha assorbito, Rosa preparerà la sua ritorsione contro lo zio – quello che “ci ha rovinate tutte” – arrivando a un gesto fatale che le sembrerà l’unico in grado di concederle la libertà di scappare da questa “malaterra” aprendo così ad alcune delle scene più belle del film, quelle degli incontri tra i due giovani amanti, incontro dei loro sguardi, delle mani che si cercano, dei corpi che si sfiorano con la stessa delicatezza con cui la macchina da presa li osserva. Ed è di nuovo un canto di Gianni a chiudere quest’episodio, un canto rivolto alle montagne, a “tutta questa bellezza che non ci meritiamo”, mentre tiene stretta a se l’amata Rosa, “la più forte di tutti”, la donna che “tutto può”.
[Terzo atto]. Ma non può fermarli Rosa gli uomini di Don Ciccio che quella notte uccidono brutalmente Gianni per rinchiudere Rosa nel palazzo del boss, ora capo unico dei clan e proprietario della donna che, divenuta così la donna più potente del paese, toglie gli orecchini di perle della mamma e con i suoi nuovi gioielli d’oro e le sue guardie del corpo si reca a trovare la sua famiglia d’origine. Qui trova le due donne che non ce l’hanno fatta: la nonna e la zia, rimaste senza re – “senza uomini come questi noi non siamo niente” l’aveva ammonita la nonna – e senza eredi da crescere: Natale, dopo la morte del padre e un vano tentativo di prendere il potere, in quel potere è imploso, rinchiudendosi in se stesso, nella sua stanza da cui non riesce più a uscire.
Rosa si veste di nero e si stende sul letto, chiede alla nonna se l’hanno vestita così la mamma quando l’hanno ammazzata, mentre quelle labbra ferme e serrate dell’inquadratura iniziale esplodono in un pianto soffocato che la donna deve trattenere con le mani, come se quel veleno versato con l’imbuto in bocca alla figlia riattraversasse ora il suo corpo bruciando di un dolore che non può trovare redenzione. Rosa può ora lasciare quella casa, adesso che non è più sola: “Non è roba tua” dice alla nonna che prova a toccarle il ventre gravido: “è un’altra femmina”, e per sua figlia Rosa ha scelto di scegliere un destino diverso.
[Esodo]. “Stanno arrivando” dice alla nonna, e dopo un sorriso accennato con la zia (forse l’unica complice), Rosa si unisce a una processione religiosa, un esercito di donne vestite di nero che intonano un canto solenne alla fine del quale tolgono il velo nero dal capo. Togliere il velo nero in questa scena corale che, come il resto del film, ha una dirompente potenza visiva, significa per queste donne di ‘ndrangheta togliere il velo dell’omertà, dell’oppressione, significa per Rosa scappare dalla vendetta che ha portato solo altro sangue per correre finalmente verso la giustizia, un vicolo luminoso dove l’aspetta una pattuglia delle forze dell’ordine. È un’immagine di pochi secondi, l’ultima scena del film, che riesce a buttare luce sull’intera pellicola a tinte così cupe. Non un primo piano come ci saremmo aspettati, il regista non ci fa più incontrare lo sguardo penetrante della protagonista ma, cosa più importante, la lascia andare. Libera di iniziare a scrivere una nuova storia.
È un film coraggioso quest’opera prima di Costabile, non solo per il tema che tratta (liberamente ispirato al romanzo inchiesta di Lirio Abbate Fimmine ribelli), ma anche per le scelte di regia: la protagonista non professionista che, forte della sua presenza scenica e del suo vissuto personale, riesce in maniera convincente; l’ibridazione dei generi: il thriller a tratti horror su una struttura ben precisa e codificata, quella tragica appunto. Soprattutto, l’audacia del film sta nella capacità di trasfigurare il reale (i fatti di cronaca documentati dal libro) a vantaggio di una “favola nera” che l’opera sembra riconsegnarci tra il mostruoso dei personaggi maschili (Don Ciccio che sembra un “cattivo” dai tratti fumettistici, Gianni così esemplarmente buono) e un ambiente dai connotati fantastici e astratti: le case, il paese, la campagna non sono, volutamente, identificabili con nessun luogo reale calabrese così come pure la commistione dei vari dialetti e il penetrante tessuto sonoro del film sono funzionali a quest’opera di astrazione fantastico-onirica che sin dall’incipit suona come una dichiarazione d’intenti: Rosa vive in un incubo, un mondo cupo di cui fatica a trovare realtà e consistenza, e da cui proverà a uscire combattendo a fianco del suo aiutante e contro tutti i nemici che alla fine sconfigerà, come in una favola.
Rispetto al romanzo di Abbate che racconta le storie di tante donne calabresi – di Maria Concetta Cacciola, di Giusy Pesce, di Rosa Ferraro, di Simonetta Napoli, di Ilaria La Torre, di Lea Garofalo – Costabile unisce tutti i loro nomi in quello di Rosa, ma ecco che, grazie a quest’opera di astrazione fantastica del reale, la storia individuale di Rosa diventa la storia universale di tutte le donne. Non a caso sin dal titolo Rosa non è la femmina, ma una femmina. Rosa è tutte le femmine ribelli, come nella dedica iniziale del film.
È dunque un film importante quello di Costabile perché è un film sulle donne che non riduce le donne a vittime di un sistema ma le fa promotrici di un cambiamento possibile e già in atto e perché è un film sulla Calabria che inizia, significativamente, a muovere una domanda: ci sono ad oggi delle opere formalmente riconoscibili a partire dal luogo che raccontano? Questa Calabria bella e perduta di alcuni film importanti degli ultimi anni – Corpo celeste di Alice Rohrwacher, Anime nere di Francesco Munzi, Il sud è niente e Il padre d’Italia di Fabio Mollo, A Ciambra e A Chiara di di Jonas Carpignano – che Calabria è? Una cosa, dopo il film di Costabile ci sembra più chiara: che se una Calabria come luogo identitario esiste, questa è soprattutto femmina. È nei personaggi femminili, nelle storie di queste donne che la vita e l’opera acquisiscono una forza nuova, una creatività generatrice e non più vittimistica e dunque al fondo distruttiva. È la capacità di cambiare strada rispetto a quella segnata dalla famiglia di Chiara nell’omonimo film di Carpignano, la caparbietà nell’indagare le cause della morte del fratello di Grazia nel film di Mollo, è il coraggio di Rosa di togliere il velo nero dalla testa per correre incontro alla vita.
È un film importante, infine, perché è un film sulla Calabria che parla di ‘ndrangheta, perché sì, la Calabria è anche questo e avere il coraggio di dirlo è il primo passo per poter ammettere che la Calabria è anche tanto altro, una terra atroce anche per bellezza, ricca per contraddizioni. Il merito di Costabile sta nella maniera con cui si è avvicinato a un tema così delicato, senza paure né banalizzazioni, senza la spettacolarizzazione del mondo criminale a cui i mafia movies ci hanno abituato. Se parlare di ‘ndrangheta, come il romanzo di Abbate ha tracciato la strada, vuol dire oggi anche e soprattutto parlare di donne è perché la particolarità della ‘ndrangheta, e la sua forza, è quella di essere un’associazione mafiosa a carattere familiare: le famiglie di ‘ndranghetisti sono strutture archetipiche patriarcali ma gli uomini o muoiono o finiscono in prigione quindi sono le donne a perpetuare l’educazione mafiosa, sono ancelle del potere maschile addestrate per trasmettere ai figli i codici di onore e continuare la catena. O decidere di interromperla. La ribellione delle femmine è quindi il primo passo ed è l’unica strada percorribile per “salvare il paese dalla mafia” come recita il sottotitolo del libro di Abbate perché il femminile, a differenza del maschile che è schiacciato dalla catena dei padri, dal peso dell’ereditarietà (Natale che non riesce a corrispondere allo stereotipo scelto dal padre e perde la testa), proprio perché ai margini delle dinamiche di potere della famiglia, gode di una maggiore libertà, della possibilità di essere il vero “tragediatore” – come dice Don Ciccio in gergo mafioso – , come Rosa si rivela, cioè il traditore, e dunque l’unica in grado di cambiare le cose: “Solo tu puoi cambiare sto schifo” le aveva detto Gianni.
È questo aspetto che, alla fine, permette al film di superare anche la specificità geografica (le donne calabresi) per assumere un significato universale: la ribellione del femminile può sfaldare il potere del maschile e quindi creare la possibilità di cambiare il maschile a partire dal femminile. Questo ribalta il ruolo della donna da vittima del sistema a soggetto di cambiamento. E il cambiamento non passa per la replica degli stessi codici di forza (quando Rosa si vendica distruggendo e uccidendo la catena di sangue non si spezza), ma avviene grazie alla forza dell’amore: è il personaggio positivo (l’unico maschile) di Gianni a dare la forza a Rosa di portare a galla il suo trauma rimosso, e l’amore per la nuova vita che porta in grembo a guidare la ribellione e indicare la via d’uscita, e una nuova vita tutta da scrivere.
Riferimenti bibliografici
L. Abbate, Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla mafia, Rizzoli, Milano 2014.
Una femmina. Regia: Francesco Costabile; soggetto: Lirio Abbate, Edoardo De Angelis; sceneggiatura: Lirio Abbate, Francesco Costabile, Serena Brugnolo, Adriano Chiarelli; fotografia: Giuseppe Maio; montaggio: Stefano Mariotti; musiche: Valerio Camporini Faggioni; interpreti: Lina Siciliano, Fabrizio Ferracane, Anna Maria De Luca, Simona Malato, Luca Massaro, Mario Russo, Vincenzo Di Rosa, Francesca Ritrovato; produzione: Tramp Film, O’Groove; distribuzione: Medusa Film; origine: Italia; durata: 102’; anno: 2022.