Come ben sintetizza Eagleton, la critica nasce come «lotta contro lo stato assolutista» (Eagleton 2005, p. 9) da parte della borghesia europea che voleva opporsi agli “editti” delle monarchie. Il discorso critico è dunque il discorso anti-editto anche quando, facendosi intransigente, si erge a depositario di una verità assoluta. Ma sa bene il critico che tale assolutezza è solo soggettiva. Il discorso critico può – e forse deve – avere una pretesa di universalità, pari a quella dell’arte, ma nessuna certezza scientifica può invece accompagnarlo. Un discorso che ha senso solo all’interno di un campo, insieme e contro altri discorsi. Senza un tale campo, in cui si articolano differenti posizioni, la critica semplicemente non esiste. E ogni nuovo discorso critico contribuisce a definire e ridefinire questo campo. Che è di fatto il campo della sfera pubblica. Il legame tra discorso critico e sfera pubblica è stretto e vincolante. Tant’è che il discorso della critica necessita di rendersi pubblico regolarmente, sulla stampa specializzata e non. Le università possono tematizzare la critica ma non produrne direttamente (a meno di non fondare riviste specifiche), perché il discorso accademico è necessariamente più lento.
La critica deve misurarsi in un legame stretto e continuo con il presente e con la comunità, più o meno larga, di potenziali interessati. Cioè la borghesia intellettuale che attraverso la pubblica discussione, di cui la critica è il genere discorsivo maggioritario e più influente, ridefinisce il perimetro e la forma delle sue opinioni e della sua presenza nello spazio sociale. Non può esserci una critica cinematografica, letteraria o artistica in genere senza che un pensiero critico attraversi il campo sociale, lo articoli e lo renda dinamicamente vitale. La critica non può di fatto esistere (se non come vacuo feticcio) senza mettere in questione il presente e le forme di vita che lo caratterizzano. Non può esistere senza determinare una nuova leggibilità del mondo. E senza la disponibilità dell’opinione pubblica a ridefinirsi e a ridefinire il suo campo identitario attraverso il moltiplicarsi delle prospettive critiche costruite ed assunte, nessuno discorso critico può aver senso ed essere efficace. Quello che abbiamo visto in questi ultimi anni è stata la radicale impossibilità di ogni pensiero critico sotto l’imperante necessità di “editti” tesi a rispondere a situazioni emergenziali.
L’impossibilità di ogni pensiero critico ha significato la progressiva riduzione del campo della discussione pubblica, polarizzata in qualcosa come una guerra civile tra editti governativi e posizioni visceralmente contro. Il gesto critico è la traccia dell’emersione, a partire da un incontro singolare con l’opera, della soggettività del critico come catalizzatore di sentimenti, credenze, idee, ma anche come sintesi di formazione, generazione, nazionalità. E questo è possibile solo se quel campo, empiricamente determinato, che rende significativo l’articolarsi di una discussione pubblica esiste e viene ritenuto importante. Se invece a dominare è il consenso verso posizioni totalitarie e incriticabili, allora ogni discorso critico diventa irrilevante e fatuo. La fatuità risiedendo proprio nell’illusione che si possa parlare di cinema o di arte senza fare riferimento al mondo, che si possa fare critica sposando una adesione consensuale alla società così come è. Se la critica è il discorso che articola il campo della discussione pubblica non è conciliabile con propaganda e categorie totalizzanti, ma deve emergere nel tratto determinato di una posizione distinta dalle altre.
La critica è un discorso che si misura col carattere empirico dell’opera e di questo carattere porta traccia nel metodo induttivo che caratterizza i suoi esempi migliori e nel radicamento in un’esperienza concreta e vitale, quella spettatoriale, che eccede ogni generica astrazione. Come quelle che contrassegnano il nostro presente divenuto incriticabile. E la cui crisi viene ora a visibilità, ma non nasce ora. Il tempo presente è stato preparato dal passato, anche da intellettuali e studiosi che hanno rinunciato fin dall’inizio a pensare criticamente, diventando meri imbonitori o cantori di un oggi composto di luoghi comuni e dettami. Spaventati di perdere tutti i vantaggi di un’adesione acritica al presente. E rinunciando ad ogni articolazione del pensiero critico hanno finito per sposare categorie totalitarie di ampio consenso in cui tutto annega: specificità dei linguaggi, singolarità dell’opera, prospettiva critica. La nozione di «visuale» ha corrisposto a questo. Mero operatore teorico di convertibilità totale di tutto con tutto, è stata la categoria-mondo per gli studi sulle immagini.
Rinunciando alla possibilità stessa di una prospettiva critica sulle opere e fagocitando ogni loro dimensione empirica, il visuale le ha annullate in un indistinto e le ha trasformate in meri indizi del funzionamento culturale e sociale. In un tale indistinto senza articolazione, astratto e indefinito, le posizioni critiche e la costituzione di un campo di pubblica discussione che vale di per sé hanno perso il loro senso. Negando l’empirico, la categoria di visuale si preserva da rischi ed opacità, ma con ciò stesso si rende sterile, nascondendo a se stessa perfino il sentimento da cui nasce: quello della costituzione di un dominio dell’inesperenziale che possa corrispondere a livello cognitivo alla logica economica dello scambio totale che neghi ogni uso determinato delle cose. Lo spazio articolato di una discussione sulle opere e le forme di vita non può eclissarsi senza cancellare la pratica stessa di libertà che ha accompagnato la modernità occidentale e l’idea stessa di democrazia, che va ben oltre quella riduttiva ed imperante che la limita al consenso. Se le opere d’arte sono prospettive estetiche ed etiche sul mondo, la critica non può che rilanciarle ed usarle come intercessori per ridefinire il campo e il perimetro di una discussione pubblica ed articolata, che al momento sembra essersi dissolto.
Riferimenti bibliografici
T. Eagleton, The function of Criticism, Verso, Londra-New York 2005.
Roberto De Gaetano, Critica del visuale, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2022.