Nella prima parte di Un altro ferragosto il primo incontro tra l’intellettuale di sinistra Sandro Molino (Silvio Orlando) e l’ex adolescente infelice Sabrina Mazzalupi (Anna Ferraioli Ravel), nonché tra i rispettivi clan familiari che si fronteggiavano in Ferie d’agosto (1996), avviene in una piazzetta di Ventotene. Sandro, che al termine di Ferie d’agosto aveva scoperto di essere in procinto di diventare padre, è malato e ha poco da vivere; il soggiorno sull’isola insieme agli amici di sempre e ai familiari è stato organizzato dal figlio Altiero (quel figlio), ricchissimo imprenditore digitale. Sabrina, che avevamo lasciato mentre urlava dal molo tutto il suo amore e il suo disprezzo per il giovane Ivan, è diventata un’influencer di successo ed è tornata a Ventotene per sposarsi con il fascistissimo fidanzato Cesare (Vinicio Marchioni). Mentre Sabrina balbetta all’inviata di una tv locale la solita serie di castronerie sul confino come vacanza pagata dallo stato, Sandro prende la parola e inizia una altrettanto prevedibile giaculatoria contro l’ignoranza e il qualunquismo, in difesa della memoria dell’antifascismo. La macchina da presa lo inquadra in campi sempre più lunghi, tanto da renderlo a un certo punto appena distinguibile, ma la sua voce resta in primo piano, mixata in modo da essere ben udibile dagli spettatori. Ma non dai personaggi del film, che gli chiedono di parlare al microfono.

Stacco, ventotto anni prima, finale di Ferie d’agosto. La vacanza a Ventotene sta per finire, Ruggero Mazzalupi (Ennio Fantastichini), proprietario di due armerie e prototipo dell’elettore berlusconiano vagheggiato da sinistra, l’ha passata a tenere sotto controllo la spocchia dei vicini Molino e il proprio desiderio verso la cognata Marisa (Sabrina Ferilli). Quando quasi tutti sono partiti abbraccia la moglie Luciana (Paola Tiziana Cruciani) e le dichiara il suo bisogno di parlarle, sicuramente confessarle quel che è evidente a tutti. La moglie declina l’offerta e lo esorta a non dire niente, preferisce il silenzio.

In questo trattamento diverso delle voci e dei suoni, e delle loro relazioni coi personaggi, c’è in una battuta la differenza principale tra questi due film e quindi, dato che si tratta di commedie, tra i mondi che mettono in scena. Se Ferie d’agosto era un film chiassoso in cui a un certo punto calava il silenzio, Un altro ferragosto è un film di disperati che devono esprimersi, per lo più da soli, e comunque non riescono a stare zitti. Nel finale melodrammatico di Ferie d’agosto il segreto doveva restare ufficialmente tale perché la vita potesse andare avanti, qui le confessioni non si negano, al massimo si rimandano a un momento più adatto (ne riparliamo quando siamo a Roma, risponde secca Sabrina al novello sposo che non gliel’ha raccontata tutta). In tutto ciò la voce di Sandro è particolarmente riconoscibile, anche in sequenze precedenti a quella descritta, anche fuoricampo mentre il piano dell’azione è animato da altri personaggi. Se il Molino del 1996 era un grillo parlante benintenzionato e odioso, ennesima e riuscita variazione del prototipo di Nicola di C’eravamo tanto amati, il Molino del 2024 è un quasi fantasma patetico, che vede i morti e parla con loro, mentre la sua voce, la voce del padre, insegue chi guarda il film e sta più dentro il discorso che dentro la storia.

Non è una novità, in generale e men che meno per il cinema di Virzì, che la società della commedia all’italiana integri l’etica del melodramma familiare e in questo modo il cinema riesca a rendere conto dei cambiamenti e del proprio tempo. Ma qui è come se i principi che tengono in piedi e distinguono i due regimi fossero fatti brillare. Galleggiano qua e là figure del melodramma (l’intruso, la festa rovinata, la forza degli elementi naturali), ma nella sostanza la chiacchiera ha sostituito il silenzio, mentre la commedia ha al centro protagonisti ipercompetenti e, tutto sommato, socialmente realizzati. Infelici per natura, non perché incapaci di adattarsi alla mutazione sociale per difetto o per eccesso, perché non fanno abbastanza o fanno troppo, come invece accadeva ai personaggi della commedia all’italiana storica. I Molino e i Mazzalupi del 2024 non hanno alcun carattere mostruoso: sono professionisti che prima di tutto pensano al lavoro e lo svolgono con coscienza ed efficienza, che si tratti di alleggerire il portafoglio titoli per eludere le tasse o di accontentare i follower di prima mattina nonostante una prima notte di nozze fallimentare.

È cambiato il mondo, ovvio, e il film si preoccupa di aggiornare la mappa del conflitto con una serie di equivalenze sinottiche tra passato e presente: la tv e lo smartphone, la piccola impresa familiare e l’autoimprenditoria digitale, i dibattiti e i commenti acidi su Facebook, la grigliata di carne e l’insalata in cui torna male mangiare il polpo che, si sa, è super intelligent. Si potrebbe dire che forse si è un po’ allentata la presa di Virzì (e della commedia italiana) sull’immaginario del tempo e quindi la capacità puntuale di delegare a riti e oggetti la definizione dei caratteri (il walkman di Ivan, l’apparecchio ai denti di Sabrina, il gilet beige di Ruggero Mazzalupi, la pistola). Ma l’impressione è che questo incida fino a un certo punto e che il cambiamento tra il 1996 e il 2024 abbia a che fare con la struttura di quello che si racconta e non con le tecniche usate per raccontarlo. Il cast del 1996 torna al suo posto, ma le assenze di Natoli e Fantastichini, convocati in effigie, sono pesantissime e gli ottimi sostituti (De Sica, Fanelli, Marchioni) funzionano come solisti più che come parti di un insieme.

Perché, e veniamo al punto, il mondo di Ferie d’agosto (o, per meglio dire, il 1996 filtrato dalla nostalgia di chi è arrivato al 2024) era ancora un mondo dialogico, in cui ci si azzuffava, ma si era costretti a parlare col vicino invadente. Il mondo di Molino e di Mazzalupi era quello della tv e di Berlusconi, di assi di distinzione avversati, ma condivisi. Il mondo di Molino e di Mazzalupi era la tv e Berlusconi, e la forma della loro interazione era il talk show. Scomparsi Mazzalupi e Berlusconi (nella realtà e quindi nella finzione), Molino diventa un revenant inutile pronto a svanire, come fa Armonica dopo aver eliminato Frank al termine di C’era una volta il West. Scomparso il dialogo restano i monologhi, come si è visto, cioè un’umanità più verbosa e inconcludente, più innamorata del suono della propria voce. Su un piano solo apparentemente distinto si potrebbe dire che scomparso Carlo Vanzina, che è da sempre uno dei punti di fuga del cinema di Virzì, i pezzi di quella commedia di costume possono essere innestati senza troppo sforzo in questo cinema. C’è del moralismo in questa nostalgia, se no non saremmo nel regno della commedia all’italiana, ma c’è anche la capacità di dare un suono alla disperazione: sounds and fury, appunto, se no non saremmo nel regno del melodramma.

Un altro ferragosto. Regia: Paolo Virzì; sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesco Bruni, Carlo Virzì; fotografia: Guido Michelotti; interpreti: Silvio Orlando, Sabrina Ferilli, Christian De Sica, Laura Morante, Andrea Carpenzano, Vinicio Marchioni; produzione: Lotus Production – Leone Film Group, Rai Cinema, con il contributo del Ministero della Cultura; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 115′; anno: 2024.

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