Non aspettatevi l’Emmanuel Carrère a cui ci hanno abituato anni di pubblicazioni sulla cresta dell’onda: Ucronia (Adelphi, 2024) è l’ultimo dei suoi libri pubblicati da Adelphi in ordine cronologico, ma è comunque distante da L’Avversario, da Limonov, da Yoga e persino da romanzi come I baffi e La settimana bianca. Non è lo stesso Carrère in ballo e, soprattutto, non può esserlo. Ucronia non è l’ennesimo bestseller da inanellare all’ormai inarrestabile serie di successi dello scrittore francese. Semmai, è un oggetto recuperato, un artefatto per i curiosi e gli affezionati che di Carrère desiderano leggere proprio tutto.
Facciamo attenzione però: che sia un oggetto recuperato – è la tesi di laurea scritta tra il 1980 e il 1985, pubblicata in Francia nel 1986 – non significa che sia anche un oggetto obsoleto. Ucronia è piuttosto la chicca che mancava, l’esemplare da Piccola Biblioteca da non lasciarsi sfuggire se si è in cerca di una di quelle letture originali che nessuno meglio di Adelphi sa offrire. Pur mantenendo la struttura del saggio, della tesi da sottoporre alle commissioni che vogliono la prova che i loro candidati abbiano letto più di quanto serva, Ucronia è anche l’omaggio di uno scrittore in erba a un concetto bislacco, emerso tardi e sparito anzitempo dalla storia del pensiero moderno.
Pare infatti che il termine ucronia sia stato coniato nel 1876 dal filosofo francese Charles Renouvier per indicare, alla lettera, ciò che non è in nessun tempo, l’avvenimento che non avviene perché negato in principio dalle sue stesse condizioni di possibilità. Non si tratta dello sfortunato cugino dell’utopia, di quanto non è ancora e forse sarà o forse no. Il suo è uno spazio di opportunità da sempre perdute, di ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato. L’utopia flirta con il tempo, si appella a un balzo clamoroso che ribalti le carte in tavola del presente. L’ucronia è nemica del tempo, una proiezione spettrale le cui premesse remano contro l’accadere. E, tuttavia, l’ucronia è per certi versi anche figlia del tempo, perché il fatto che essa sia articolabile (e dunque non sia) è inscindibile dall’inesorabilità del divenire, dalla piega che hanno preso le cose.
Artificioso, verrà da dire. Non troppo in realtà. Perché se ci pensiamo bene, «immaginare come sarebbe il mondo se un certo evento, considerato decisivo, fosse andato diversamente è uno degli esercizi più naturali e frequenti messi in atto dal pensiero umano» (Carrère 2024, p. 12). Dagli scrittori e dai fanatici di storia, che più ne sanno e più sono inclini a pensare il loro oggetto di studi altrimenti. Da un certo Don Chisciotte borgesiano, che si sotterra nella propria biblioteca fino a ripudiare per sempre la visione della luce. Da chi preferisce abbandonarsi all’esercizio di una memoria illusoria piuttosto che reale, come il tormentato Fred Madison (Bill Pullman) di Strade perdute (1997), quando dice: “Mi piace ricordare le cose a modo mio, non necessariamente nel modo in cui sono accadute”. «Qualsiasi forma di creazione romanzesca», del resto, «sfiora l’ucronia», e lo fa proprio «nella misura in cui incorpora nella trama di una storia nota degli avvenimenti immaginari» (ivi, p. 19).
Capriccio di sognatori e vigliacchi, ma non solo. Perché l’ucronia è anche la materia grezza del rimpianto, della smentita indifendibile e di tutta quella serie di riavvolgimenti illeciti che attanagliano la banalità del quotidiano. È ucronico il vizio di chi non si rassegna all’ineluttabilità del passato, come nella serie (fin troppo numerosa forse) di libri citati dal candidato Carrère su un Napoleone mai caduto a Waterloo e di una Francia imperiale mai tramontata. Lo è l’allucinazione feroce di chi ci esorta a non credere che certi mali si siano estinti con la scomparsa dei loro perpetratori, come racconta ne La svastica sul sole Philip K. Dick, ucronista per eccellenza a cui Carrère dedicherà una strabiliante monografia. E infine, e più in generale, è ucronico chi si arrende nel reale pur continuando a combattere le proprie battaglie nella fantasia.
Ostica in superficie, nonché perfetta candidata da affidare alla disciplina che Giovanni Papini voleva istituire sotto il nome di Ignotica (la scienza di tutto ciò che non sappiamo), una volta messa nelle mani dell’uomo l’ucronia si rivela un fuoco che era meglio lasciare agli dèi: una tendenza languida, intrisa di desideri osceni, rimpianti e rabbia. Un misto di nostalgia ed esaltazione che, lungi dal contare sulle robuste radici dei sistemi utopistici, ci sfugge di bocca come un filo di fiato tra i denti, quasi un lapsus fisiologico: «E se…?».
Con buona probabilità, Elvio Fachinelli avrebbe detto che l’ucronia non è altro che un tentativo di annullare il tempo. Se il concetto non fosse sparito senza preavviso dalla coscienza collettiva del Novecento, l’avremmo trovato nel suo La freccia ferma sotto forma di cronotipo, di piccolo aggeggio con cui l’inconscio gioca con la temporalità conscia, e dunque con la morte.
Ma a pensarci bene, anche questa è un’ucronia: qualcosa che non è e, ancora peggio, non può essere per definizione. Che rispetto al rigido determinismo della Storia è soltanto un giro, al massimo una spirale a vuoto. Perché sorprenderci della sua sparizione allora? Specie oggi, che siamo bombardati di messaggi che ci esortano a fare i conti con il passato il più velocemente possibile, che ci invitano a vivere con entrambi i piedi nel reale – qualsiasi cosa esso sia.
Ecco, un buon rimpiazzo per l’ucronia potrebbe essere l’angelo di Benjamin, troppo impegnato a farsi trascinare dal vento del progresso per accorgersi che il (suo) passato è pieno di detriti. “Combatti le tue paure direttamente nel futuro”, dicono i guru del realismo; “sostituisci il rimorso all’abitudine”, “il tuo vero Sé ti aspetta nel domani”, eccetera eccetera. Ma se la psicoanalisi – disciplina che sa di vecchio per antonomasia – ci aveva visto giusto, il passato non passa. Piuttosto, ritorna. Ecco allora che la sparizione del concetto di ucronia è coincisa, paradossalmente, con una progressiva proliferazione del pensiero ucronico, e che all’invasato che vedeva un Napoleone novantenne ancora seduto sul trono con le vesti di imperatore si sono succedute le epidemie da disinformazione, i negazionismi truci, i complotti da burattinaio e le fake news.
Chi crede nella risoluzione automatica del passato si sopravvaluta. Chi invece pensa che le ucronie siano solo un innocuo gioco di prestigio ne sottovaluta il potenziale. Lo stesso Carrère, tra una pagina e l’altra, ritorna su questo punto con drammatica puntualità: a rendere l’ucronia insidiosa è il fatto che, una volta tracciato, il suo cerchio si allarga a dismisura, talvolta fino a mangiare il confine tra reale e irreale, verità e inganno, commedia e tragedia. Un’ucronia senza argini non è più l’antitesi della Storia, quanto il suo doppio indistinguibile, come se quella che chiamiamo con fare mansueto “la Storia” non fosse che la cospirazione portata avanti da un gruppo clandestino di intellettuali senza scrupoli, l’operato di una discendenza segreta che si è impegnata a tramandarci il falso spacciandolo per l’inevitabile. La versione della storia a cui è bene credere, il sogno da cui è meglio non svegliarsi.
Ecco perché, se l’utopia è il salto, il viaggio spericolato oltre i confini geografici del plausibile, l’ucronia si rispecchia nella geometria del bivio. Un bivio che, quando le cose si mettono male, si tramuta in un percorso di sola andata: è il caso di quando la contraffazione originaria è talmente calcata, scritta sopra le righe, da perdere completamente il controllo delle proprie conseguenze.
Che poi, a voler azzardare, non è forse questo il dispositivo che ha reso Carrère chi è oggi? Sarebbe così inconcepibile affermare che Carrère non è solo lo scrittore di Ucronia, ma anche e soprattutto il grande ammiratore delle ucronie e, ancor di più, di quelle finite male? Non serve neanche troppo scomodare il Dick ritratto in Io sono vivo, voi siete morti che, come un ingegnere ucronico, lascia scegliere all’I Ching le svolte che prenderanno le trame dei suoi libri. Lo sfortunato protagonista de I baffi non sa più se credere alla propria versione (i baffi, vi dico, li ho avuti) o a quella dei suoi cari (quei baffi non ci sono mai stati). Il piccolo Nicolas de La settimana bianca riscrive la storia di suo padre e il loro rapporto (mio papà non è un assassino di bambini ma un agente segreto che ci protegge dal male) rovinando per sempre la vita dell’unica persona disposta a essere suo amico. Il Jean-Claude Romand de L’Avversario, che ahinoi non è fiction, stermina la sua intera famiglia nel momento in cui la realtà e la verità storica espellono l’ucronia dalla sua vita. Lui sopravvive, senza un come e un perché, forse da testimone dello sfacelo, da martire che trovandosi ad «affrontare la storia può solo perdere il suo incanto privato, inutile e insostituibile, senza ricevere niente in cambio» (ivi, p. 152).
Quando l’ucronia va in pezzi, l’angelo che veniva sradicato dal passato cade dal cielo. Il vento che lo solleva smette di soffiare. E più precipita più prova vergogna di sé. Forse perché l’ucronia è un sintomo: l’oggetto di una terapia, ma anche l’eccesso oscuro che definisce chi siamo e cosa desideriamo, il troppo che non si imbavaglia, l’agente di disturbo che si ribella al silenzio delle leggi universali. E come diceva Freud, talvolta amiamo il nostro sintomo più di noi stessi.
Emanuel Carrère, Ucronia, Adelphi, Milano 2024.