La colpa innocente del sentire

di FRANCESCA PELLEGRINO

Tutto chiede salvezza di Francesco Bruni.

Tutto chiede salvezza

Per i pazzi di tutti i tempi
ingoiati dai manicomi della storia.

Inaspettata e indecidibile, la malattia è un accadimento traumatico che irrompe nell’ordinarietà dell’esistenza, la sospende e infine, in tutta la sua potenza deflagrante e sovversiva, radicalmente la modifica. In quanto stato di alterazione psico-fisica e condizione di anormalità, essa ha carattere rivoluzionario poiché, nel bene o nel male, ridetermina uno e molti destini: si sottrae al controllo, incrina gli equilibri sino a disfarli, plasma comportamenti e reazioni emotive e, in uno spazio-tempo prima inesistente, segna l’avviarsi di una crisi profonda, dalla quale sarà possibile come non possibile salvarsi. Raccontare un processo di natura così prepotente, ma dagli sviluppi e dagli esiti incerti, non è semplice ed implica l’acume di coglierlo in una forma che sia “malleabile” (cioè svincolata da codici rigidi che ne comprometterebbero il segreto intrinseco) e “illogica”, laddove la tensione data dal manifestarsi dell’incongruenza in una situazione lineare e compatta stimola, di conseguenza, sentimenti contrastanti e irrazionali. Al comparire della minaccia, le emozioni si fanno infatti enigmatiche, inclini alla mutabilità al pari degli eventi da cui sono innescate.

Tutto chiede salvezza – la serie Netflix diretta da Francesco Bruni e scritta insieme a Daniele Mencarelli, autore dell’omonimo libro – fa di questa irriducibile ambivalenza esistenziale il proprio marchio strutturale. Testando i meccanismi della serialità, il regista sviluppa un linguaggio già distintivo della sua filmografia (Scialla! Stai sereno, Noi 4, Tutto quello che vuoi, Cosa sarà), a sostegno di una narrazione ariosa che intende non tralasciare la verosimiglianza di nessuno degli scenari probabili della vicenda.

È una calda domenica di agosto, Daniele Cenni (Federico Cesari) ha vent’anni e, dopo una notte brava trascorsa in discoteca in compagnia degli amici di sempre, si risveglia nel reparto psichiatrico di un anonimo ospedale romano, frastornato e con i polsi legati alle sponde di contenzione del letto. Ancora non lo sa ma, in seguito ad un episodio psicotico sfociato in una violenta aggressione domestica ai danni del padre, le autorità hanno disposto per lui un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Il ragazzo è così costretto ad un esilio detox dal mondo e, per una settimana, dovrà rimanere lontano dagli affetti, mantenersi pulito astenendosi dall’uso di sostanze stupefacenti e, soprattutto, imparare a gestire quella sensibilità spiccata che lo porta a patire esageratamente il lato crudele e ingiusto del vivere. La serie è il racconto delicato dell’esperienza giovanile della malattia mentale: di un innocente sentire che diventa “colpevole”, e quindi patologico, di fronte all’incapacità di riconoscere la possibilità della sofferenza e al desiderio ossessivo di una felicità universale assoluta.

Dai lungometraggi precedenti dell’autore (anzitutto dall’ultimo Cosa sarà), la storia eredita la scrittura delicata e realistica dei personaggi, la parola semplice ma mai banale riconsegnata per mezzo dei dialoghi, la prospettiva tragicomica che sublima la fragilità e poeticizza il dolore. Bruni rifiuta la differenziazione stigmatizzante tra sano e insano, e promuove una visione empatica del disturbo psichico, trattato non alla stregua di una proprietà individuale che disumanizza chi la possiede, bensì di un difetto sociale da imputarsi all’inadeguatezza e alla ferocia di un sistema più ampio. Tuttavia, il suo più grande merito è quello di essere riuscito, ancora una volta, a smorzare i toni della narrazione adottando uno sguardo anche ironico sul male. È convincente il recupero di un residuo stilistico tutto italiano, e tradizionalmente definito “romanzesco”, capace di restituire per come si dà nella realtà la naturale oscillazione tra commedia e tragedia, apertura e chiusura, in virtù della quale, sia pure in un contesto drammatico, la libertà si alterna alla perdita di fiato, il respiro all’apnea e la sofferenza non è totalizzante. Nella finzione e nella vita, il trauma non sancisce di fatto alcuna fine definitiva e non cancella quell’ambiguità fondamentale per cui non si piange (e non si ride) soltanto. Al contrario, esso è spesso occasione di scoperta e conoscenza, inaspettato riscatto e reinvenzione: di una seconda nascita che passa attraverso la morte, riapre il tempo e lo riveste di significato.

Tutto chiede salvezza afferma con decisione questa dinamica di espansione vitale e regressione claustrofobica. Nella menzionata scena del risveglio, la “boccata d’aria” del rinvenimento di Daniele muta subito in un principio di asfissia perché qualcosa sta bruciando sul lenzuolo che gli cinge il petto. Anche dopo l’intervento di un inserviente che spegne la fiamma, l’ossigeno continua progressivamente a diminuire e la macchina da presa ingabbia il protagonista in un primissimo piano che, non a caso, include la parola “apnea” scritta a matita sulla parete di fianco al letto. Il ricovero forzato è l’evento destabilizzante che costringe il personaggio ad una sospensione temporanea del quotidiano, lo pone di fronte ad un problema che rinnega ma anzitutto lo espone, in egual misura, al pericolo di venirne risucchiato e alla possibilità miracolosa di redimersi. Ecco perché la stessa camerata che gli si presenta come il luogo inospitale di una detenzione (il caldo è insopportabile, l’aria condizionata non funziona, i compagni sono creature mostruose, dei reietti senza dignità), diviene successivamente lo spazio magico e incontaminato della sperimentazione e della fantasia (dove tornare a scrivere poesie, immaginare di vedere una carbonara nel piatto del brodino, o di assistere alla “resurrezione” di un paziente in stato vegetativo permanente).

Se alla notizia dell’isolamento Daniele reagisce con ostilità e rabbia, determinate scelte formali sono finalizzate a riflettere la sua insofferenza e ad abbruttire l’ambiente-prigione in cui è recluso. Le finestre devono rimanere chiuse, su un cortile quasi sempre a percorrenza unica (in entrata per chi arriva, in uscita per chi abbandona). È vietato spingersi oltre la porta in fondo al corridoio perché “di là ci stanno i cattivi!”. Il mare, quieto e cristallino, sembra essere una mera illusione di orizzonte; l’ingannevole affresco, realizzato sul muro di cinta della struttura, che separa da ciò che sta dall’altra parte. Da qui il ricorrere di campi pressoché “indifferenti” all’esterno – in alcuni momenti la luce abbagliante lo rende sovraesposto e addirittura invisibile – e di un’inquadratura spesso stretta sul volto del ragazzo o sul dettaglio delle sue mani che stringono, fino a farsi male, degli oggetti.

Viceversa, con l’incalzare del processo trasformativo del personaggio, l’immagine si schiude, si estende e traccia il movimento meno limitante di una rimessa in gioco forse risolutiva. L’instaurarsi di un dialogo e di un legame affettivo con gli altri ridimensiona il pensiero doloroso dell’emarginazione e della sconfitta, e spiana la strada per la comprensione e il perdono di sé. Cambiano così le modalità di interazione con il luogo, la percezione della routine indigesta della clinica. Le finestre si aprono, ci si imbuca nel reparto dei cattivi (che poi è il reparto di psichiatria femminile), si sale furtivamente sul terrazzo per amore di una matta e si scende giù in cortile quando l’aria manca. Persino il mare “si anima” e si fa vicino, stuzzicando l’immaginazione (agli occhi dei degenti, una nave qualsiasi è la “nave dei pazzi” diretta verso il sole), e disinfettando le ferite (durante la fuga notturna di Nina, la ragazza di cui Daniele si innamora, il corpo brama l’acqua e vi si immerge, non per affogare ma perché alla ricerca di una purificazione).

Pertanto, succede che il fuori smette di essere soltanto una porzione di reale da intravedere a distanza, ma si scopre raggiungibile, accogliente, partecipe del percorso di redenzione in atto. Nel corso del TSO, anche contravvenendo alle regole o prendendo l’iniziativa di modificarle, Daniele erra e varca soglie, fisiche e simboliche. Intuisce che, nell’eccezionalità di una zona liminare dove la vita non è “vera” ma la morte non è certa, è possibile ribaltare le cose, fare incontri che liberano e risanano lo sguardo, tornare ad essere “credenti”. E l’approdo alla credenza – nell’accezione romanzesca di una fede disincantata cui si giunge solo passando per il buio – è corale, epidemico. Riguarda il protagonista e investe i personaggi secondari, dotati di una tridimensionalità che aggiunge spessore alla trama principale ed “eroi” delle proprie vicende personali. Conosciamo l’origine del bipolarismo di Gianluca (Vincenzo Crea) e ne cogliamo la gioia davanti alla promessa di un’amicizia futura poiché siamo stati testimoni diretti di un crudo rifiuto familiare. Un sentimento di solidarietà ci unisce a Mario (Andrea Pennacchi) e lo ascoltiamo come un mentore, perché la colpa di cui è macchiato viene motivata. La pericolosità dell’agire di Giorgio (Lorenzo Renzi) si annulla alla luce della scoperta di ciò che ha passato da bambino. Nina (Fotinì Peluso) fa un rumore “tenero” nel momento in cui ci è dato guardare dentro l’abisso di una perfezione tossica che l’ha ridotta in schiavitù. Persino in “Madonnina” (Vincenzo Nemolato), di cui non si sa nulla se non che invoca in loop l’aiuto della Vergine, e in Alessandro (Alessandro Pacioni), immobile e privato della parola perché ridotto allo stato di vegetale, si intercetta il segno ultimo di un’umanità che resiste, impossibile da declassare o dimenticare, che finché resta, come in attesa di un risarcimento, aspira alla salvezza e, forte della vicinanza dei suoi simili, a suo modo “crede”.

A questo punto, emerge il senso vero della cosiddetta “nostalgia del Paradiso”, con cui la serie identifica il bisogno ossessivo, germe di ogni forma di follia e sentimento comune a tutti i malati di mente, di tornare a una dimensione pregressa, idilliaca, dell’esistenza. Un “mondo prima del mondo” ancora puro e imperturbabile. Se per il folle quello è il posto in cui smettere di soffrire è plausibile, Tutto chiede salvezza ci dice tuttavia che il passaggio per il buio non collima con una regressione solitaria, espulsiva e anestetizzante che dichiara la fine di tutto, ma con un attraversamento della sofferenza necessario alla preservazione della vitalità della vita, che si mette in salvo e nasce di nuovo. L’idea della seconda nascita, della (ri)generazione, si cela sin dall’inizio in un elemento narrativo ricorrente, ossia nel desiderio collettivo di un ritorno del e al materno: del come figura presente della cura; al come grembo, appunto, serenità uterina non intaccata dal peccato e dal dolore, origine del bello e del tempo.

I riferimenti alla madre sono continui, ma si legano ad una simbologia ambigua che fa del regno materno qualcosa a metà tra una culla e una tomba. Nina ha tentato il suicidio perché ossessionata dall’incarico di realizzare i sogni frustrati di una madre arrivista. Il rigetto di una madre idolatrata è causa dello sgretolamento identitario di Gianluca. La follia distruttiva di Giorgio è l’effetto della scomparsa improvvisa di una madre che se n’è andata senza salutarlo. Nel racconto di Mario, la diagnosi di autismo di un bambino è per i medici ascrivibile al distacco della “madre frigorifero”. Riconosciuta come “primo soccorritore”, alla madre si rivolgono la domanda d’amore e il grido d’aiuto del figlio, e dal dono o dalla negazione delle sue mani dipendono le sorti di un’intera esistenza col rischio che resti mutilata.

Bruni mostra con onestà gli effetti dell’assenza volontaria o involontaria della madre, ma con una forza maggiore quelli lenitivi di una maternità responsabile e buona, che è ossigeno, ricompensa, immagine più forte delle potenzialità salvifiche del bene, della riappropriazione di un’innocenza originaria che consente all’essere di rivenire alla luce. La madre di Daniele lo attende commossa fuori dalla clinica come era solita fare all’uscita di scuola. Il corpo gravido dell’infermiera incarna la speranza “a lungo termine” di ogni gestazione. La probabilità che Nina sia incinta è già futuro. Nel finale la storia e le storie si spalancano sull’ignoto ma dalle mani dei due giovani amanti che si intrecciano, un attimo prima di un tuffo in piscina dall’alto di un trampolino, qualcosa ricomincia. Con il coraggio e la fiducia che servono, altrove.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
D. Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, Milano 2020.
M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli, Milano 2015.

Tutto chiede salvezza. Regia: Francesco Bruni; sceneggiatura: Francesco Bruni, Francesco Cenni, Daniela Gambaro, Daniele Mencarelli; fotografia: Carlo Rinaldi; montaggio: Alessandro Heffler, Luca Carrera; musiche: Lorenzo Tomio; interpreti: Federico Cesari, Andrea Pennacchi, Vincenzo Crea, Lorenzo Renzi, Vincenzo Nemolato, Alessandro Pacioni, Fotinì Peluso, Ricky Memphis, Bianca Nappi, Filippo Nigro, Michele La Ginestra, Lorenza Indovina; produzione:  Picomedia; distribuzione: Netflix; origine: Italia, anno: 2022-in produzione.

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