Tremanti e confusi, a mani intrecciate e vento in faccia, insieme sul ciglio di un trampolino in alto che dà sull’ignoto. Li abbiamo lasciati così, Daniele (Federico Cesari) e Nina (Fotinì Peluso), nell’epilogo della prima stagione di Tutto chiede salvezza. Di nuovo fuori dalla clinica psichiatrica in cui si erano conosciuti e amati per la prima volta. Forse in attesa di un figlio e più o meno liberi dal dolore. Con la più umana paura negli occhi, ma nel cuore un desiderio immane di futuro. Si guardano, ansimano, in bilico lungo una linea di confine.
La serie torna su Netflix con un secondo efficace capitolo che, riallacciandosi agli avvenimenti trascorsi, alcuni dei quali rimasti in sospeso, fa ricominciare la storia da un’ellissi temporale di circa due anni, gettando lo spettatore nel vivo della “vita dopo” del protagonista. Daniele è ora un aspirante infermiere, il papà single di una bambina dolcissima di nome Maria. Coinvolto nella guerriglia legale perpetrata dall’ex e soprattutto dalla madre (Carolina Crescentini), partecipa controvoglia agli incontri in tribunale, preoccupato dal rischio di perdere la causa e vedersi negata l’occasione di prendersi cura della figlia. Il supporto della sua famiglia e degli amici non manca, e lui sembra mettercela tutta per non lasciarsi sopraffare dall’ansia e dimostrare di essere in grado di gestire in modo sano e maturo la propria emotività.
Sono cambiate molte cose. Qualcosa di buono è successo e qualcosa è invece andato storto. Tuttavia, Daniele ha imparato che fa parte del gioco, degli scenari possibili già al tempo della decisione di tuffarsi da quel trampolino in alto nella mischia del mondo. È quasi un uomo ormai, continua a scrivere poesie e persegue l’obiettivo di una vera realizzazione. Se infatti nella prima stagione ciascun episodio raccontava un giorno della settimana del ventenne da paziente TSO all’Ospedale San Francesco, i cinque appena rilasciati riferiscono al contrario delle settimane di tirocinio che il ragazzo svolge presso la stessa struttura in cui era stato allora forzatamente recluso. La narrazione riparte quindi delineando una situazione che, rispetto al passato, costituisce un’ulteriore frattura. Eppure, benché si sia evoluto in una versione “migliore”, socialmente idonea e “meno folle” di se stesso, il personaggio continua a presentare i tratti dell’identità precaria ed errante, dall’equilibrio incerto. Daniele, è chiaro sin da subito, non appartiene in sostanza a nessun luogo, concreto o simbolico, che possa dirsi definitivo: è sempre, ancora, in bilico lungo una linea di confine.
Di fatto, la seconda stagione di Tutto chiede salvezza non fa che riproporre il disegno drammaturgico sperimentato in precedenza. E qui, quel posizionamento un po’ “romanzesco” della macchina da presa – equivalente alla postura empatica, realistica e mai giudicante che l’autore è solito mantenere di fronte al racconto – si afferma anzi molto più incisivamente, si solidifica in uno spazio che è “tutto aperto”, in cui viene meno anche il limite prima comunque presente della costrizione del soggetto tra le mura del reparto di psichiatria. La serie diretta da Francesco Bruni si fondava già sull’idea di un respiro strutturale costante, coerente al respiro spontaneo della vita, dolce e amara insieme, imprevedibile e soggetta a ripetute, rapide e scioccanti, trasformazioni. Se n’era già parlato e questo respiro strutturale faceva pertanto già da supporto, potente perché l’unico credibile, alla materia dell’intreccio. Nel corso della sua degenza, lo ricordiamo, Daniele saggiava di giorno in giorno il vincolo di una spazialità chiusa per ritrovarsi e ritrovare il senso dell’esistenza. Il suo processo di guarigione si fondava cioè su un movimento doppio di chiusura e apertura, e da un “dentro” il ragazzo andava pian piano a proiettarsi verso il “fuori”. Il personaggio abitava, fisicamente ed emotivamente, la zona ambigua della soglia, per cui la camerata asettica e odorante di morte diventava a un certo punto il posto magico di un’inaspettata redenzione, dove incontrare l’altro, giocare con la fantasia, abituarsi a resistere e a ridere della e nella sofferenza. In poche parole, a vivere.
Il ritorno di Daniele in clinica sancisce la riattivazione di questo meccanismo fondamentale, di questo stare in bilico lungo una linea di confine. Ma è un meccanismo che si estende adesso anche e necessariamente al privato vissuto altrove. Che proprio altrove, manifestandosi per ciò che è senza restrizioni – la condizione umana in assoluto universale, non discriminante o divisiva, né sintomatica di un problema – non soltanto rafforza la storia e l’esperienza personale del protagonista, ma si completa, si perfeziona come espressione del pensiero che sta al di sopra di tutto. La zona ambigua della soglia, rappresentativa di un sentimento diffuso dal quale è impossibile prescindere vivendo, è una scelta stilistica di per sé riflesso di, e riflessione su, un preciso modo di vedere e trattare la malattia. Nella seconda stagione di Tutto chiede salvezza si ribadisce la compresenza, in un corpo solo, di stati d’animo e pulsioni erroneamente considerati opposti. Gioia e dolore si sovrappongono naturalmente, si intersecano, l’una non annulla l’altro e viceversa, fino a confondersi. Così la salute e la “pazzia”.
Con la divisa da infermiere e non più vestito del camicione bianco del matto, tra presenze reali e oniriche, fermo e allo stesso tempo esitante, Daniele valica ancora una volta le soglie del reparto, ma in generale attraversa le soglie di un sentire non lineare, viscerale, che permane all’esterno. A Villa San Francesco ritrova medici e inservienti, Giorgio (Lorenzo Renzi) nei panni del giardiniere buffo e improvvisato della struttura, si imbatte nei pazienti sconosciuti che occupano la stanza prima popolata dagli amici. Accanto ad Alessandro (Alessandro Pacioni), sempre immobile nel suo letto, c’è ad esempio il riottoso Rachid (Samuel Di Napoli). Di fianco alla finestra, la stessa da cui il buon Mario (Andrea Pennacchi) era caduto per nutrire un uccellino, siede Matilde (Drusilla Foer), un po’ uomo un po’ donna, elegante e crudele, fragile e saggia, entità-specchio dell’essenza liminare di ognuno.
Nell’universo sospeso in cui, silente o urlante, aleggia la domanda unanime di salvezza, Daniele si riscopre vulnerabile e parte di quella domanda, assorbe il malessere intorno e lo fa deflagrare nel fuori: sui familiari apprensivi e su Nina “la stronza”, su Gianluca (Vincenzo Crea) che si dichiara timidamente a lui e su Angelica (Valentina Romani), la figlia di Mario con cui sta tentando nel frattempo di intraprendere una relazione. Nel fuori come nel dentro dell’ospedale, da libero come da internato, anche se non grava sulle sue spalle alcuna diagnosi psichiatrica, Daniele sosta in un territorio indefinito in cui il disagio esiste e tanto spesso non si distingue dalla presunta normalità, quanto spesso può differirne per caso. Il Dottor Mancino (Filippo Nigro) ne è convinto e lo dice apertamente: che, in realtà, a non esistere è la linea di confine che separa il reparto dal resto del mondo, perché la differenza tra noi e loro è e sarà sempre il frutto di una circostanza. Quando nel mezzo di un delirio ansiogeno Daniele guida alterato e Mario appare sul sedile posteriore intimandogli di essere prudente, il ragazzo accosta sul ciglio della strada e si mette in salvo. In una situazione analoga, il caso riserva invece una diversa sorte a Nina che, ubriaca dopo un provino andato male, si schianta con l’auto rischiando di morire.
Tutti abitiamo costantemente la sfera delle infinite possibilità, il caos, il dissidio interiore delle emozioni che non si somigliano. Non c’è però linea di separazione e di confine è la vita. Bruni indaga il dolore; il riscatto, filtrato dal suo sguardo, passa attraverso il contatto, l’amore e il riconoscimento di qualcosa di familiare, intimo, nel disagio, ossia nella solitudine, dell’altro. Significativa, a tal proposito, è la vicenda della new entry Armando (Vittorio Viviani), più soft e silenziosa di altre, ma proprio per questo capace di comunicare quanto follia ed equilibrio, tormento e senso di pacificazione, siano termini e condizioni intercambiabili o sovrapponibili a seconda, appunto, del caso. Armando è un anziano che pretende di restare in clinica pur non presentando patologie psichiatriche, e lo fa perché ai suoi occhi il reparto è un luogo in cui sentirsi meno solo e dimenticato, un posto “dove poter morire in pace”. La sua storia, inserendosi nel puzzle delle singole altre storie vecchie e nuove, è dunque l’ennesimo impulso a credere che la salvezza è qualcosa che accade quando accettiamo di essere e di sentire più cose contemporaneamente, quando rifiutiamo di demonizzare una percezione differente della stessa cosa. Quando, soprattutto, in bilico lungo la linea di confine, ciò che vediamo non è un muro, ma un’opportunità, l’orizzonte di una speranza.
C’è una scena, che un po’ com’era stato per il viaggio immaginario sulla “nave dei pazzi”, restituisce ed esemplifica la verità di tutto questo. È la scena in cui, nel quarto episodio, al gruppo guidato da Daniele è concesso di fare una passeggiata in giardino e quella passeggiata muta in una corsa in spiaggia. Alla corsa partecipa inerme anche Alessandro, a bordo di una sedia a rotelle spinta con foga puerile da Giorgio. Proprio lì, dove sul finire della terra ferma inizia il mare, accade il miracolo. Davanti all’orizzonte Alessandro sbatte le palpebre, solleva un braccio come a voler sfiorare l’azzurro. A dispetto della paralisi che per anni lo ha costretto all’immobilità, allo spegnimento, alla morte in vita, in vita torna scorgendo, nel limite, l’opportunità.
Tutto chiede salvezza, con il capitolo secondo, supera le aspettative. Pur allontanandosi dalla traccia originale (il romanzo omonimo di Daniele Mencarelli), riesce a non snaturarla, rimane fedele a sé stessa, custodisce e sprigiona quell’umanità e quella poesia rare di cui si era avvalsa esordendo. Ogni elemento rientra nel progetto più grande di preservare la dignità di ciò che si è desiderato raccontare. Il senso di questa progettualità condivisa, della sua immensa portata morale, ci è riconsegnato difatti nel finale corale cui approda questa volta, nel teatro dove Daniele è protagonista di un reading di suoi scritti di fronte a una platea di amici e parenti. Alle sue parole viene affidato il messaggio ultimo e, se tutto chiede salvezza, tutti la trovano nell’abbraccio collettivo di quel momento. Nell’intensità struggente del brano e della vita di confine. L’esperienza umana è qui, nel mondo, vita di confine. E il suo valore consiste nel non essere solo noi e non lasciare soli loro.
Tutto chiede salvezza. Regia, sceneggiatura: Francesco Bruni; fotografia: Carlo Rinaldi; montaggio: Alessandro Heffler, Luca Carrera; musiche: Lorenzo Tomio; interpreti: Federico Cesari, Fotinì Peluso, Andrea Pennacchi, Vincenzo Crea, Vincenzo Nemolato, Lorenzo Renzi, Alessandro Pacioni, Ricky Memphis, Filippo Nigro; produzione: Picomedia; origine: Italia; anno: 2024.