«Perché non vieni», si chiede Adriana Zarri (teologa, mistica e poetessa, 1919-2010), «in queste sere solitarie, / quando i vetri tralucono / l’ultimo rosso del tramonto?» (Zarri 2021, p. 132). Tutto sta a capire chi sia questo “tu” a cui Zarri si rivolge. Intanto, è proprio sicuro che sia un chi? In effetti sembra essere qualcosa di simile ad una persona, ma non potrebbe anche essere qualcosa di molto più generico e mondano? Come è terra terra, ad esempio, una cosa, un sasso, un gatto, una strada asfaltata. I versi che seguono sembrerebbero confermare, però, che si tratta di un “tu”: «Perché non vieni, in queste sere silenziose / quando non giunge più nessun rumore; / e, nella calma immobile, / alita solo il respiro?». Sembrano pieni di attesa questi versi, tuttavia si tratta di un’attesa che non provoca nessuna ansia. Come se quello dell’attesa fosse esso stesso un tempo pieno da vivere, e non soltanto un vuoto intervallo fastidioso che separa dalla meta. C’è attesa, ma c’è tutta la gioia dell’attesa, una gioia così piena che quasi si contenta di sé: «Perché non siedi alla mia tavola / quando, a sera, le mense / sono imbandite per la cena? / Metterò la tovaglia più bella / coi fiori colti nel giardino; / e il gatto verrà a fare le fusa / sopra alle tue ginocchia» (ivi, p. 133). È comunque uno di casa, questo “tu” a chi si rivolge la poesia, uno a cui piacciono i gatti e le cena senza troppe pretese. Un amico.
Ma se è così, allora, questo “tu” non è più, propriamente, una persona. O meglio, non c’è bisogno che lo sia. Forse questo “tu” è già da sempre qui, forse è già arrivato. Una preghiera, almeno così viene da pensare a chi abbia un’idea troppo semplice e pretesca della preghiera, è una invocazione a Dio. Ad un “tu” che si spera che ascolti le parole della preghiera. Ma c’è un altro modo, molto più semplice e quotidiano, di intendere la preghiera; si tratta delle parole che escono dalla bocca quasi senza pensarci, che accompagnano i nostri gesti quotidiani, un mormorio che non dice nulla di particolare, come quello dei bambini quando giocano da soli. In questo caso la preghiera non solo non ha nulla da chiedere, ma non vuole dire altro, in fondo, che il mondo è a posto così com’è. Come se le parole avessero perso ogni presunzione, e si limitassero ad accompagnare il mondo, senza volerlo definire e tanto meno giudicare. È quello che Zarri scrive, appunto, nella poesia Mi sta bene così:
Teologi, non vi preoccupate
d’immaginare un paradiso così etereo
che io non ho più voglia
di andarci.
E voi, pittori,
non dipingete ali di angeli
in vortici esangui di azzurro,
ma dipingete questa terra
con le sue nebbie e le sue nuvole,
le sue stagioni e le sue strade
cementate di fango.Il sole che tramonta nella nebbia
mi sta bene così;
la luna che scompare dietro al monte
mi sta bene così.
La primavera, l’estate, l’inverno, la neve:
la terra verde, la terra gialla, la terra bianca,
mi sta bene così (ivi, p. 88).
Cosa vuol dire “mi sta bene così” se non, in effetti, che il mondo è a posto proprio così com’è? Non che tutto vada bene nel mondo, perché è evidente che nel mondo ci sono tantissime cose che non vanno bene. La preghiera, tuttavia, non ha la pretesa di dire al mondo come dovrebbe essere. La preghiera è umile, la preghiera prende atto del mondo così com’è. In questo senso le poesie di Adriana Zarri sono quasi preghiere proprio per questa ragione, perché non chiedono nulla, non chiedono nemmeno di essere ascoltate. In effetti che senso avrebbe chiedere qualcosa alle “strade cementate di fango”?
Cominciamo a capire, allora, chi, o meglio che cosa, potrebbe essere questo “tu” a cui si rivolgono queste poesie. Il fatto è che ogni volta che parliamo non possiamo non rivolgerci ad un “tu”, perché si parla sempre ad altri, in risposta ad un qualche “tu” che ci aveva interpellato prima. Ma questo stesso “tu”, allora, non è qualcuno in particolare, è il “tu” che apre le nostre parole e i nostri discorsi, è un “tu” che non può che portarci fuori di noi, verso il mondo. E una volta che siamo nel mondo è il mondo stesso che parla nelle nostre parole. Per questa ragione Zarri non ha nulla da chiedere al mondo, perché il mondo le “sta bene così”. In effetti c’è solo questo mondo, non ce ne sono altri, è qui che viviamo:
Non darmi nulla, Signore,
non mi serve.
Non ti domanderò del pane
o delle vesti
o una buona salute;
e nemmeno la gioia di te.
Non ti chiederò sole
o nebbia
o fuoco accesi
o tovaglia sul tavolo;
ma solo un tavolo
perché tu possa sederti
nelle sere d’inverno.Ti chiederò soltanto mani vuote,
mani cave,
mani calde:
come un nido d’uccello
dove tu possa riposare (ivi, p. 24).
Siccome il mondo è soltanto questo mondo, non c’è nemmeno un altro mondo da desiderare, un mondo al cui confronto quello in cui ci troviamo a vivere non sarebbe che un surrogato imperfetto. Invece il mondo è questo qui. Così la poetessa non ha nulla da chiedere al “Signore”, se non di avere delle “mani cave” e “calde” che possano accogliere, appunto, il mondo che c’è, “come un nido d’uccello / dove tu possa riposare”. Zarri chiede al “tu” a cui si rivolge, chiede cioè al mondo, di avere l’umiltà di accoglierlo, e di proteggerlo, così come un nido protegge un uccello, così come una mano accoglie e stringe un’altra mano.
Il mondo che troviamo nelle quasi preghiere, o quasi poesie, di Adriana Zarri, è il mondo ritrovato dopo che per un lungo tempo di oblio lo avevamo del tutto dimenticato. Per questa ragione è così importante che il “tu” che ricorre in queste pagine non sia altro che il mondo che c’è sempre stato, e che ci ha aspettato per tutto questo tempo, paziente e silenzioso. In effetti questo povero mondo, oggetto delle nostre azioni e dei nostri desideri, è stato sommerso di progetti e parole al punto di diventare invisibile. Per un po’, almeno per un po’, occorre provare a tacere, a non dire nulla del mondo, perché il mondo stesso, infine, possa manifestarsi di nuovo. Solo dove la parola tace il mondo appare, infatti, come dice nei Rospi caldi:
Facci ingoiare come rospi caldi,
tutti gli scandali
dei nostri discorsi edificanti
e l’ateismo fabbricato
dal nostro parlare di Dio! (ivi, p. 78).
È ateo, lo sappiamo ormai, solo chi parla di Dio, perché ne parla proprio perché non crede più nel mondo, e così ha bisogno di inventarsene un altro, oltre a questo mondo, l’unico mondo che c’è. Per questo dobbiamo mandare giù, come degli immangiabili “rospi caldi”, la nostra voglia di parlare e di giudicare. Si parla per non vedere, si parla per allontanare il mondo, si parla per paura del mondo. Solo quando riusciamo a tacere, invece, accogliamo il mondo nella mano, cioè quando la mano diventa mondo. In quel momento non possiamo dire nient’altro che Ed ecco, cioè è proprio così che stanno le cose, ed è proprio così che dovevano stare:
Ed ecco la parola si discioglie
dalla molle matassa.
Si sgroviglia,
si tende,
si estenua,
fino al disteso lago del silenzio (ivi, p. 112).
Un “silenzio”, dovrebbe essere evidente, che non è il silenzio disperato di qualcuno a cui sia stata tolta la parola, al contrario, è il silenzio pieno di voci e di vita di chi aderisce al mondo, di chi si è fatto mondo, di chi è riuscito a usare la parola non per allontanarlo da sé, al contrario, di chi è riuscito ad attraversare il linguaggio e la sua diffidenza per il mondo. La poesia è questa operazione di trasformazione della parola in mondo. Per questa ragione, infine, le poesie di Adriana Zarri non sono, propriamente, delle preghiere, perché non si parla quasi mai di Dio, ma sempre e solo del mondo. Se ha senso di parlare di materialismo nella poesia allora queste sono poesie integralmente materialiste. È il mondo, in fondo, che ci parla attraverso la voce di Adriana Zarri, come scrive in Non ho più niente da fare:
[…]
E sono come un tappeto,
per terra.
La gente cammina,
io cammino.
I vivi pestano i morti,
i morti puntellano i vivi …
Adesso chiudo il mio cassetto;
i giorni sopra i giorni,
le lune sopra le lune,
in ordine.
Non ho più niente da fare.
Va tutto bene così (ivi, p. 94).
Adriana Zarri, «Tu». Quasi preghiere, a cura di Francesco Occhetto, Lindau, Torino 2021.