Esiste una drammaturgia del tempo? La scena teatrale è un coacervo di tempo dispiegato da un tessuto che è, letteralmente, il testo. Ogni messinscena di un testo dispiega quel tessuto sul tempo della scena, che è un tempo sospeso, ritagliato nel reale in cui l’immaginario si fa attuale. «Ci appare sempre convincente il paradosso secondo il quale il vero scrittore di teatro della scena contemporanea è il regista, che ha imparato a usare la “scrittura scenica” esattamente come il vecchio autore impiegava la “scrittura drammaturgica”» (Alonge 1996, p. 143).
Dunque, da quando l’imperativo del Testo e del Grande Attore sono tramontati col teatro ottocentesco, è questione di scrittura scenica. Questa materia incandescente del ri-scrivere in scena, nel teatro italiano contemporaneo ha avuto due grandi maestri: Carmelo Bene e Leo De Bernardinis, in cui il plesso drammaturgia/attoricità/regia si intrecciavano in modo folgorante. Per il primo attraverso il tempo di un regime musicale della parola, un tempo attanagliato al corpo che risuona, che si fa phonè. Per il secondo nei termini di un tempo dell’accadere scenico che si illumina, si riempie e si svuota di materiali.
Soprattutto la lezione di Leo ci sembra (insieme a quella di un regista che lavora esemplarmente la drammaturgia come Antonio Latella) insistere in un esempio singolare di scrittura drammaturgico-registica come quella di Pino Carbone, testimonianza rara di inscindibilità dei due poli drammaturgia-regia. Lo si è visto alla Biennale Teatro di questa estate (diretta proprio da Latella e dedicato alle pratiche drammaturgiche), dove di Carbone si è svolto un evento/residenza condiviso e promosso da Teatro Pubblico Campano e Casa del Contemporaneo e che, presentato da Teatri Uniti in collaborazione con Ex Asilo Filangieri, ora si scompone-ricompone in una sorta di trittico, visto tra Teatro Nuovo e Sala Assoli a Napoli nella stessa serata.
Una forma di polittico in cui lo spazio e il tempo si dilatano e si comprimono, la scena trova una sua espansione in un ambiente ingombro di materiali accatastati, l’interno di un luogo assediato che evoca, per il primo pezzo, Assedio (2019), l’esterno di un conflitto (i 1425 giorni di Sarajevo). La medesima scena dell’attesa e del riconoscimento (che paradossalmente coincide con un misconoscimento) trova una sua concentrazione, nello spazio circoscritto in terra da un perimetro bianco e segnato da un semplice tavolo e due sedie, negli altri due pezzi, sotto il titolo di Progetto Due. Qui, in una sorta di conflitto-delirio “a due” divaricato e rovesciato su maschile e femminile, figure mitico-fiabesche come PenelopeUlisse (2017) e BarbablùGiuditta (2010) si fronteggiano e in un certo senso si amalgamano scambiandosi una febbrile corrente attoriale, molto fisica e insieme onirica.
Per Assedio ci troviamo di fronte, ma anche “dentro”, un tempo assediato in cui i giorni di Sarajevo (rimandati da un piccolo televisore in scena) si disseminano nell’attesa e implodono in un sottile e lento riconoscimento in filigrana di un melò romantico (appannaggio del Grande Testo e del Grande Attore) come il Cyrano de Bergerac di Rostand. Il gruppo di attori seduti su divani scassati, su sedie traballanti, aggrappati alle aste dei microfoni, chini su tavolini sbilenchi, è accompagnato da musicisti e fabbricanti di suoni dal vivo (gli straordinari Alessandro Innaro e Marco Messina, quest’ultimo, già 99 Posse, autore delle magnifiche musiche del Martin Eden di Pietro Marcello).
Campeggia, in una comunità preda della poesia e della guerra, l’intensità pervasa da un sarcasmo dolente di Alfonso Postiglione, cui basta mettersi e togliersi il naso finto per restituire, estratta allo stato di scheletro poetico, la versificazione di Rostand, lanciata in scena come un “gioco a perdere”. Ed è proprio qui, nel nesso tra gioco (infantile e spudorato) e tempo, come tra attesa e riconoscimento, il filo che continua poi nei due pezzi successivi, spostandosi ma proseguendo la frammentazione condensata, tipica del sogno in senso freudiano, e lo sbranamento della parola.
Quando il riconoscimento, in punta di “fin della tenzone”, di deliquio, sul campo di battaglia (quello dei bambini perduti senza collare sulle macerie rifatte in forma di rosa, come avveniva nel “teatro di guerra” di Sarajevo), avviene tra Rossana e Cyrano durante l’assedio di Arras, le due temporalità, quella della Storia (Sarajevo) e quella del testo (Rostand) conflagrano e rovinano nello splendore devastante. Resilienza e poesia fanno corpo a corpo. Un poeta di Sarajevo, Abdulah Sidran, cui Carbone si è riferito, ha risposto alla domanda «Se dovesse scegliere tra il Corano, il Vecchio o il Nuovo Testamento cosa leggerebbe?» in questo sorprendente modo: «Li ho letti tutti e tre ma sceglierei Omero». Ed è proprio Omero — i lacerti della sua coppia archetipale, Ulisse e Penelope — che si va ad incontrare scendendo nel ventre della Sala Assoli.
Qui ciò che era accensione allucinatoria per il tempo assediato del primo pezzo, diventa scrittura onirica in diretta, catturata ed emersa nel perimetro del sogno. Il sogno di un ritorno, quello di Ulisse, dove l’attesa, di Penelope, non coincide con un riconoscere, anzi fa coincidere il possibile riconoscimento in un continuo rimbalzo di misconoscimento. Il gioco drammaturgico si sconnette e si trasferisce da un lato in una regia a vista (lo stesso Carbone al tavolino di regia detta tempi e ripetizioni) e dall’altro nel vestire e svestire le parti delle due figure mitiche, travasate nell’attuale della scena qui ed ora, nel lavoro drammaturgico scambiato tra voci maschili (scritte dalle attrici-drammaturghe Anna Carla Broegge e Francesca De Nicolais) e voci femminili (scritte da Carbone).
Continui rovesciamenti e rimbalzi si producono tra punto di vista e scivolamento di parola, che si ripercuote nel suono scandito delle musiche originali dei Camera. Intorno a un tavolo, come in un ring strindberghiano, in un “teatro da camera compressa” dove si restringe e si dilata la relazione, Ulisse e Penelope si dilaniano e danno accesso a una loro “danza di morte”. Quest’ultima in qualche modo introduce all’altra danza “sul filo”, in cui il volteggiare tra attrazione, violenza, infantile seduzione e desiderio perverso, dischiude una “porta della memoria” dove invece è possibile far rivivere un ricordo, poter ripetere una frase, una piccola frase (che diventa gesto rapinoso d’amore disperato) cui conferire tutt’altra vita. Come scrive Paul Valery:
Il suono, la figura della piccola frase, ritorna entro di me, si ripete in me, come se in me si beasse. E io ho piacere a udirmela ridire, questa piccola frase. Che ha quasi perduto il suo senso, che ha cessato di servire, e che tuttavia vuol vivere ancora, ma di tutt’altra vita (Valery 1957, vol. I, p. 1324).
Ecco allora che l’orco Barbablù se ne sta seduto, come il Krapp beckettiano, al tavolino con un registratore a incidere la memoria di un desiderio e l’eco di una parola d’amore, chiudendola a chiave e insieme dischiudendola come l’invito a uno sverginamento. Così emerge in tutta la sua intensità fisica, laddove voce/atto/silenzio si divaricano, la solitudine “a due” di un sogno. Queste singolarità di attori si stagliano nella puntualità acre della scrittura scenica come i bagliori oscuri di pietre preziose: Anna Carla Broegge e Renato De Simone (Penelope e Ulisse), Rita Russo e Luca Mancini (Giuditta e Barbablù). Scrive Georges Didi-Huberman:
Che cosa significa? Che tutte le nostre solitudini di immagini sono l’organo stesso che ci permette di stare in contatto con la comunità, in ciò che essa ha di più grande, di più intero, di più estremo: la comunità delle cose da scongiurare e che pure accadono […]. Significa forse che ogni vera solitudine è una solitudine a due […]. Il mondo drammatizzato delle scene di teatro, dunque, sarebbe proprio questa solitudine a due delle scene della storia in cui si giocano i drammi del mondo (Didi-Huberman 2011, pp. 16-19).
E allora affiorano, salvifiche, le schegge delle immagini, tutte mentali eppure fisicamente incarnate, che cogliamo chiudendo e aprendo gli occhi, essendo testimoni dell’assedio del tempo che torna a prendere forma e a farsi scena.
Riferimenti bibliografici
R. Alonge, Scene perturbanti e rimosse. Interno ed esterno sulla scena teatrale, La Nuova Italia, Roma 1996.
G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
P. Valery, Poésie et pensée abstraite in Oeuvres, Gallimard, Paris 1957.
*In anteprima e in copertina una foto di Ufficio stampa – Raimondo Adamo.