«Chi dice che l’inizio dell’amore è di libera volontà,
digli che mente: esso è tutto costrizione!
Ed essendo tale, non c’è vergogna nell’amare;
che questa sia la verità lo dimostrano più storie»
Le mille e una notte (AA.VV. 2017, p. 506)
Raccontare storie è sempre stato un tassello fondamentale nell’evoluzione dell’uomo: trasmissione del passato ai posteri, comprensione o giustificazione della realtà, mezzo con cui accedere al mondo altro, della meraviglia, dell’inimmaginabile. Le storie inventate, raccontate e conosciute erano – e in parte sono – ciò che plasmavano mondo, credenze e fantasie. Questo il terreno da cui muove i primi passi il nuovo film di George Miller, con una consapevolezza che non tarda a dichiararsi: “Le storie una volta erano il solo modo per dare coerenza alla nostra sconcertante esistenza”.
Oggi sono sempre meno le realtà che sembrano ergersi a preservatrici di quell’antico piacere narrativo, che ha ceduto il passo a nuove forme di spettacolarizzazione. Impossibile non citare il collettivo El Pampero Cine, che attorno alla capacità e all’amore di raccontare ha saputo costruire la propria forza. Se l’apice è raggiunto con La flor (2018) di Mariano Llinás e con il recente Trenque Lauquen (2022) di Laura Citarella, tale volontà si estende al complesso della loro produzione come tratto distintivo consapevole, dichiarazione artistica eversiva. Da Ostende (2011) a Corsini interpreta a Blomberg y Marciel (2021), da Historias extraordinarias (2008) a Por el dinero (2019), a trasparire è la coscienza che le storie saranno anche state tutte filmate e scritte, ma è come vengono raccontate che continua ad affascinare.
Tremila anni di attesa (2022) – adattamento della raccolta Il genio nell’occhio d’usignolo di Antonia Susan Byatt – si immette in questa fiducia del racconto, trasportandola all’interno del più ampio spettro del cinema mainstream. Pur distanziandosi dalla povertà dei mezzi e dalle complesse (auto)riflessioni strutturali, Miller sembra perseguire la strada della casa di produzione argentina riscoprendo il cinema come potente macchina affabulatoria che in passato contraddistinse la sua fortuna. La struttura virtuosa a scatole cinesi viene parzialmente mantenuta, ma semplificata attraverso una progressione più ordinata e lineare – quasi episodica, verrebbe da dire – al cui interno prendono forma le stesse componenti tradizionali: c’è un narratore (Jinn) e un narratario (Alithea), c’è chi espone e chi ascolta. È tramite l’atto del racconto che i due protagonisti – e noi con loro – hanno la possibilità di conoscersi, definirsi, tra le vicende di vita di lei e quelle mitologiche di lui. Ma Alithea ascolta-racconta perché addestrata a farlo, mentre per il Jinn è propensione naturale in quanto rappresentante della narratologia tout court.
Da questa dicotomia Miller ordisce sia la struttura filmica sia una riflessione che contrappone antico e moderno, eterno ed effimero, chi crea storie e chi da esse viene plasmato. Alithea in quanto figlia della contemporaneità costruisce la sua conoscenza sulla base delle narrazioni che la raggiungono: “Una studiosa della narrativa che cercava la verità comuni a tutte le storie dell’umanità”. È abituata alla ricostruzione del passato attraverso le storie che vengono create e tramandate, ma che in quanto tali sono in parte frutto di manomissioni di un’intersoggettività, risultato di ciò che forse è accaduto.
Se Alithea è costretta a prendere per vero le vicende che le vengono raccontate dalle tracce a propria disposizione – compiendo qualcosa di assimilabile ad un atto di fede nei confronti della narrazione e delle fonti – di contro, il genio è uno spettatore diretto di ciò che racconta, è fonte inesauribile di storia, a cui si aggiunge un’onniscienza che gli permette di rapportarsi alla realtà circostante senza dipendenze esterne, in modo autosufficiente.
L’incontro con il Jinn segna dunque la precarietà di quella “fede”, di quelle convinzioni su cui Alithea ha basato la propria visione del mondo e della vita, costringendola a sentire il bisogno di trasferire la fiducia verso nuove garanzie. Poco dopo la sua comparsa, il Jinn rivela che non fu la Regina di Saba ad andare da Re Salomone bensì il contrario, anche se “È in tutti i libri sacri, in tutte le leggende e dipinti”, anche se “Handel ci ha scritto un’opera”, dimostrandole l’inattendibilità del patrimonio culturale. Trasferendo la fiducia verso il genio, Alithea ha così l’illusione di controllare finalmente la Storia, manifestando in verità una dipendenza da un’autorevolezza narrativa che contraddistingue l’umano. Ella rimane pur sempre in una condizione di subordinazione: non raggiunge la conoscenza di ciò che è stato, ma di ciò che qualcuno o qualcosa le racconta essere stato, accettando per vero un’altra fonte a lei superiore.
Nonostante la sua intelligenza, nonostante la critica delle fonti a cui è assoggettata, accettata la precarietà di fondo della conoscenza, Alithea non può fare a meno che lasciarsi soggiogare dalla bellezza dei racconti che le aprono una finestra sul mito e sul passato, divenendo vulnerabile a quell’affabulazione che sembrava aver imparato a dominare (rinnegando l’immaginario Enzo). Pian piano, con il progressivo deterioramento delle proprie sicurezze, la donna non ha più alcun motivo di perseverare con l’idea che “Non c’è storia sul desiderio che non sia un ammonimento”. Ed è infatti lei a cedere, chiedendo ciò che i grandi racconti ci han sempre fatto desiderare: l’amore – ora carnale ora sentimentale –, tradendo definitivamente le sue profonde convinzioni e diventando vittima dell’illusione narrativa.
Tramite questa illusione, Alithea può ristabilire una certezza rassicurante e tornare alla quotidianità, al prezzo di sacrificare il razionale tornando ad una condizione più propensa alla fascinazione per l’irrazionale. Non è più però l’amore di un personaggio di fantasia (Enzo), ma l’amore di un personaggio della fantasia (Jinn). Il suo tragitto all’interno dell’opera può essere visto come la regressione dalla ragione all’impulso, come reazione alla perdita di sicurezze di fronte all’affabulazione contro cui non ha potere d’azione. Al passaggio dal razionale all’irrazionale segue tuttavia un movimento inverso: Alithea e il Jinn abbandonano l’esotica Istanbul (terra di fantasmi e misteriosi bazar) per tornare alla monotona Londra (terra di vecchi vicini e problemi sociali).
Non a caso la ragione riaffiora in lei solo quando il genio inizia a perdere vitalità, consumato dalla costrizione di un amore in quella terra lontana dall’Oriente fantasmatico. L’illusione si affievolisce con il deteriorarsi del Jinn – che coincide con il finire del film – e solo così la protagonista ha la possibilità di rendersi conto d’aver sostituito una finzione con un’altra finzione, tanto rassicurante quanto caduca. La magia di un racconto dopotutto non può durare in eterno, in modo continuativo, è necessario accettarne la temporanea meraviglia che ci trasmette e imparare a goderne in quel momento circoscritto.
Miller sembra suggerirci che ciò che rimane da fare ad Alithea (e a noi) è sganciarsi momentaneamente dalle nostre convinzioni, accettare l’hit et nunc e abbandonarsi totalmente al piacere del racconto. Se per Alithea avviene con l’irruzione del Jinn nella stanza d’hotel – sorta di luogo di sospensione in cui prendono forma e si consumano le visioni fantasmatiche, un corrispettivo della sala cinematografica, prima di poter tornare nel mondo reale – per lo spettatore si esaurisce nello spazio della durata del film. Riscoprendosi come la grande macchina affabulatoria che fu (o che è), il cinema incrementa la forza del racconto sganciandolo dalla dimensione dell’immaginazione, della fantasia, per inserirlo all’interno di quella del mostrabile, costruendone un corrispettivo visivo in cui le capacità del digitale si fanno essenziali per l’efficacia dell’illusione: è la magia contemporanea. Donne gigantesche, teste ragno, personaggi mitici e luoghi leggendari diventano figure possibili in uno spazio narrativo che annulla temporaneamente i concetti di realtà e finzione.
L’immaginario delle grandi narrazioni si mostra vivido e tangibile, prende vita sullo schermo davanti ai nostri occhi amplificando la sospensione dell’incredulità: noi come Alithea non possiamo far altro che lasciarci illudere e affascinare da quelle immagini, da quei racconti. Tremila anni di attesa, quindi, si presenta come un film autoriflessivo tramite il quale il cinema dimostra di possedere ancora la capacità di meravigliare, ammaliare, stupire raccontando, attraverso un genere – il fantastico – che sembra avere una naturale propensione. Siamo nel campo di ciò che Geoff King definisce spectacular narratives, in cui le esigenze dello spettacolo contemporaneo si intrecciano con la necessità di farsi raccontare storie. È cinema della convergenza, ma pur sempre cinema narrativo perché «per sopravvivere, bisogna ricorrere alla narrazione, alla sorpresa, alla creazione, sotto la spada di Damocle di sempre nuove storie» (Ben Jelloun 2007, p. 40).
Riferimenti bibliografici
Le mille e una notte, a cura di F. Gabrieli, Einaudi, Torino 2017.
T. Ben Jelloun, L’origine del romanzo, in “Sognare/Ragionare”, Anno 3 n. 25, luglio-agosto 2007.
Tremila anni di attesa. Regia: George Miller; sceneggiatura: George Miller, Augusta Gore; fotografia: John Seale; montaggio: Margaret Sixel; musiche: Junkie XL; interpreti: Tilda Swinton, Idris Elba; produzione: Kennedy Miller Mitchell, Metro-Goldwyn-Mayer, FilmNation Entertainment; distribuzione: Prime Video; origine: Australia, Stati Uniti d’America; durata: 108’; anno: 2022.