Il vaso di Pandora del desiderio

di ELVIRA DEL GUERCIO

Transparent e I Love Dick di Jill Soloway.

Transparent (Soloway, 2014 – in produzione).

Marco, protagonista di Parla con lei,
è l’uomo che non trattiene le lacrime mentre Caetano Veloso
canta Cuccurucucu Paloma, l’uomo che piange.
Un attore deve saper camminare ostentando
le sue spalle e la sua mascolinità, ma anche piangere.
Invece non abbiamo mai visto John Wayne,
Clark Gable, Gary Cooper e altre icone maschili piangere.
Io ho imparato di nuovo a piangere negli ultimi dieci anni,
le lacrime sono balsamiche.

Pedro Almodovar

Vi sono sempre stati momenti in cui le donne avevano arditamente rotto il silenzio e preso la parola sul proprio corpo, la propria intelligenza, i propri diritti e desideri; capacissime di sfidare, anche mettendo a rischio la vita, con caparbietà e forza, le strette convenzioni in cui era ingabbiato il genere. Si pensi a Elizabeth Candy Stanton, abolizionista fervente e figura guida dei primi movimenti per l’emancipazione femminile nati negli Stati Uniti durante la seconda metà del XVIII secolo:

Troppo a lungo l’uomo, con la preponderanza del suo desiderio, si è fatto giudice dell’intera questione concernente il rapporto sessuale. Ora lasciamo che sia la madre del genere umano, la cui prerogativa è di porre limiti all’appagamento delle sue voglie, a risvegliarsi e sottoporre tutta la faccenda a un’indagine approfondita e coraggiosa.

Risvegliarsi, ecco. E sottoporre ad una rigida analisi ciò che fino a quel momento era stato dato per scontato, astorico, immodificabile, affermando e riconoscendo che tra la femmina e il maschio il desiderio e il piacere sono assolutamente reciproci, attraverso una progressiva decostruzione e poi smascheramento della prospettiva totalizzante del sesso maschile. Si pensi, inoltre, alle innumerevoli azioni dimostrative delle suffragette nel Regno Unito, una delle quali costò vita alla giovane attivista Emily Davison che morì durante i disordini al Derby di Epsom l’8 giugno 1913; a Marie-Louise Giraud, una delle ultime donne ad essere ghigliottinate in Francia per aver procurato aborti clandestini (Isabelle Huppert la interpreta magnificamente nel 1988 in Un affare di donne di Claude Chabrol); alle prime e lampanti manifestazioni di female gaze letterario, a Colette, Pualine Réage, ad Anaïs Nin, con il suo tentativo nei primi anni ‘40 di creare una pornografia schiettamente femminile, che riuscisse nel contempo a sodisfare il suo anonimo e maschio datore di lavoro – difficile non pensare in questo senso al personaggio interpretato da Maggie Gyllenhaal in The Deuce – la via del porno (David Simon e George Pelecanos, 2017 – in produzione) –, ben consapevole che con il sigillo fortemente radicale e femminista della sua pornografia si sarebbe dovuta far strada all’interno di un mondo ancora asservito al potere degli uomini, i produttori.

E arriviamo così alla metà degli anni ‘70, proprio quando l’antropologa statunitense Gayle Rubin introduce il concetto di gender, mettendo a nudo la costruzione socioculturale dei due sessi e ripensandone la distinzione originaria in un’ottica differente, multiforme, polimorfa come la stessa sessualità. Dunque, in seguito allo sviluppo e alla crescita dei vari movimenti femministi liberale e radicale negli anni settanta e “post-genere” nell’ultimo secolo, nella visione di un superamento delle differenze di genere e la conseguente rivalutazione delle sfumature esistenti tra sesso biologico, identità di genere e orientamento sessuale, adesso si transita in un momento in cui i media – cinema e serialità televisiva, quest’ultima specialmente negli ultimi anni – da divulgatori di modelli di riferimento maschili e femminili stereotipati, congelati e monolitici, stanno acquisendo profondità e punti di vista sempre più conglobanti, avvolgenti e Jill Soloway è senza dubbio una delle più fervide rappresentanti del female e queer gaze in questo periodo storico e culturale.

Non esiste persona che cresca con un senso definito della femminilità e della mascolinità. L’identità di genere di una persona, i suoi desideri, sono quasi sempre contraddittori; si tratta della comunanza di fantasie giovanili, conflitti inconsapevoli, valori e comportamenti familiari appresi o meno, confronto con dinamiche sociali e pubbliche, un qualcosa di “eccentrico”, in moto perenne, non riconducibile a un quadro di contrapposizioni manichee, e la serie tv Transparent (andata in onda per la prima volta nel 2014 e in questo momento in fase di realizzazione per la quinta e, a quanto pare, ultima stagione) costituisce un momento spartiacque in primo luogo nella ridefinizione della natura del desiderio – di cosa si tratta, in che modo muove l’interazione tra gli individui, quanto non sia calcolabile o prevedibile rispetto alle convenzioni in cui la società vuole stringersi, fluttuante ed enigmatico – in relazione al dualismo non più antitetico tra orientamento sessuale e identità di genere.

Transparent è la storia di Morty che all’alba dei suoi sessant’anni decide di confessare alla famiglia di essersi da sempre sentito una donna e voler cominciare il proprio percorso di transizione: Soloway rifugge dall’ansia e dalla trepidazione di articolare trame o intrighi contorti propri di determinata serialità; tutto cresce, si addensa e consuma nell’interiorità dei personaggi, tutti spudoratamente sviscerati, scoperti, gradualmente privati delle proprie certezze; ed è proprio da qui, dall’inizio della transizione di Morty e dalla riscoperta sessualità delle sue figlie, e quindi dalla messa in discussione di ciò che l’altro da sé – la società, la famiglia in senso lato, etica e prassi comportamentali, per la maggior parte costrutti – vuole che uno sia, che ha inizio una vera e propria rivoluzione, di ruoli e generi.

Come sostiene Michel Foucault l’ordine sociale plasma donne e uomini esercitando il proprio potere contro interessi naturali e piaceri sostanziali, volendo normalizzare i corpi con pratiche e abitudini quotidiane che sono sanzionate positivamente (e preventivamente), e alle quali tutti cerchiamo di conformarci e in cui la famiglia ha un ruolo fondamentale: può decidere se allinearsi acriticamente, oppure contrastare quanto le sembri avverso ai suoi più intimi bisogni come si vede nelle varie dimensioni familiari costruite dalla Soloway, focolari al di sopra di ogni convenzione e nidi di destini incrociati.

In questo senso, il confine tra il concetto di femminilità e mascolinità si fa labile, le contraddizioni esplodono, lo sguardo è “multigenere”, come nella maggior parte dei film di Pedro Almodovar (uno dei pochi cineasti che si distacca ampiamente dal male gaze) nei suoi maschi piangenti, e le relazioni gerarchiche di potere si invertono: la conseguenza, come sostiene Saveria Capecchi, è l’accettazione di tutte le differenze, senza però cancellare quella sessuale, in linea con quanto affermano le teoriche postgenere. E lo stesso si avverte nei microcosmi diversificati e unici di Jill Soloway che il passo avanti, il Manifesto, lo realizzerà però nel 2016 con I Love Dick.

Essendo desiderio, la lettera d’amore attende la sua risposta; essa ingiunge implicitamente all’altro di rispondere: se questo non avviene, la sua immagine si altera, diventa altra (Barthes 2014).

Ideata con Sarah Gubbins e tratta dall’omonimo romanzo del 1997 di Chris Kraus, scrittrice e artista americana, I Love Dick è prima di tutto una brillante prova di abilità stilistica e registica per la Soloway e Andrea Arnold che sanno come fondere nel breve giro di trenta minuti a puntata uno sperimentalismo chiaramente vicino a Jean-Luc Godard (fermo-immagine, sguardi in macchina, andirivieni di un montaggio eloquente e convulso) e alla vague francese a un gusto quasi “alleniano” per l’analisi interiore – basti pensare alla sequenza in cui Chris/Kathryn Hahn e Sylvère/Griffin Dunne discutono del loro rapporto matrimoniale che non può non rimandare alle interminabili conversazioni di Annie Hall e Alvy Singer – costituendo un modo inedito ed efficace di tradurre la frammentarietà e non linearità del romanzo epistolare della Kraus.

Oggi, stando alle parole della psicanalista Louise J. Kaplan, con tutti i “permessi-contentino” concessi alle donne di esprimere le loro ambizioni intellettuali e tensioni erotiche, è ancora ampliamente diffusa un’atmosfera punitiva che continua a frenare molte donne dall’esibire senza occultamenti la loro intelligenza e il loro desiderio sessuale attivo: e cos’è che atterrisce maggiormente l’uomo (Dick) di una donna che afferma nello stesso tempo ardimento intellettuale (la scrittura delle lettere, una specie di opera d’arte nuova e stratificata) e passione, desiderio amorosi? Che si addentri in territori per definizione maschili e mostri quanto vale in quei campi? Non è più la donna a fungere da musa né oggetto su cui plasmare le fantasie di un qualsivoglia Pigmalione. La donna è questa volta il soggetto creante, unico riverbero di desideri e perversioni, che andrà a sconvolgere l’ordine delle cose del tenebroso maschio alfa interpretato da Kevin Bacon.

Contemporaneamente alla sua storia, la Kraus ci racconta poi di tantissime altre donne, attiviste, artiste, poetesse, cosa che la Soloway, forte di un attivismo e impegno politici irrinunciabili, rende circondando Chris di altri tre personaggi femminili, ognuna con il proprio racconto riguardante Dick: durante il quinto episodio della stagione le quattro donne si racconteranno alla macchina da presa, riflettendo sulla rispettiva sessualità e discriminazioni di razza e genere in cui si sono imbattute nel corso della loro formazione, rappresentando così una delle più audaci, vibranti e magnetiche dichiarazioni di indipendenza femminile mai viste sullo schermo: «Caro Dick, non siamo così lontane dalle tua porta di casa».

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2014.
S. Capecchi, Identità di genere e media, Carocci, 2006.
L.J. Kaplan, Perversioni femminili, Raffaello Cortina Editore, 2015.

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