Durante un intervento alla Festa dei Lavoratori a Fossombrone, nel 1986, ricordando Pasolini e Olivetti come suoi modelli, Paolo Volponi ebbe a dichiarare: “Olivetti era un industriale, ma era socialista”. Questo “ma”, che qui si è voluto rimarcare con un corsivo, raccoglie in sé un’intera visione: il capitale può avere una destinazione sociale. Di più: il capitale può essere capitale morale. E pertanto: gli “intellettuali organici” hanno il compito storico e politico di tracciare la rotta, di indicare la via di questa possibilità, di risolvere cioè l’antinomia tra “industriale” e “socialista” superando il famigerato ma in un trionfale e: Olivetti era un industriale ed era socialista.

Se Volponi ha militato fecondamente, nella sua opera e con la sua opera, per un inedito approccio critico al problema dell’industria e del capitale, non è stato in virtù della denuncia diretta della disumanità del capitale o dell’industria, ma nell’aver cantato in controcanto l’ingenuità e l’innocenza delle sue vittime e dei suoi esclusi.

Come a dire: catarsi indiretta, la sua opera ha ribadito dall’inizio alla fine che l’utopia – diciamo pure l’utopia socialista, nel senso più cogente e perentorio, potremmo dire nel suo senso tragico – è assai più illuminatrice di quanto sia o pretenda di essere trasformativa. Più o meno come fu denuncia della guerra il pellicano impestato di pece nei mari del Golfo Persico. Assai più degli appelli pontifici al cessate il fuoco, essa ci rese edotti, tragicamente e poeticamente, su quanto il dubbio miracolo del potere e della forza poteva portare seco con la promessa miglioratrice del progresso. In questo precisamente ci permettiamo di riconoscere la migliore militanza di Volponi: nella lirica e nell’utopismo. I quali, lungi dallo stigmatizzare frontalmente o a muso duro il problema del capitale autoreferenziale, lo misero a nudo nel suo ontologico istinto a violare l’illibatezza.

“Bisogna essere comunisti”, riecheggiano le sue parole al 1 maggio di Fossombrone. Ma con la stessa aura e lo stesso spirito militante, egli avrebbe potuto dire: “Bisogna essere assolutamente poetici”. Quanto hanno guadagnato e perso l’industria, il mondo industriale, la propria coscienza di sé attraverso o grazie all’opera di Volponi? Sostanzialmente nulla: il capitalismo, se non è semplicemente migrato da una forma all’altra della sua vocazione sopraffattoria, è di fatto degenerato ancora più prepotentemente nella sua costitutiva voluttà di dominio. E né Volponi né altri, con buona pace di chi ritiene eterno il messaggio poetico – ovvero eterno di un’eternità calmierante, lenitiva o addirittura sanante in senso storico – hanno arginato alcunché. Viceversa, quanto di perpetuamente critico rimarrà nel tempo, a prescindere dal degrado del capitalismo, dall’attuale fanatizzazione del liberalismo, grazie o attraverso l’opera di Volponi? Questo è l’unico dato che ci interessa. Perché in definitiva quello che egli ha espresso di puro nella sua opera è contraltare imperituro dell’impurità del potere. E qualunque epoca potrà ritrovarlo come monito.

Detto in altre parole, riprendendo la formula di Enzensberger: la letteratura è contestazione in sé. E se è letteratura al di qua e al di fuori della contestazione deliberata, politica e militante – diciamo, della contestazione esplicita – è comunque destinata a rimanere come implicita azione di denuncia. Laddove è nostra convinzione che cantare il bene, l’uomo e la giustizia sono manifestazioni di quella immodificabile responsabilità di fronte al destino dell’umano che nessuna ulteriore azione di militanza può in nessun modo, per così dire, maggiorare.

Non è d’altronde un caso che lo stesso Volponi, quando decise di sostituire il titolo del suo romanzo Repubblica borghese in un più neutro La strada per Roma, calcasse la parola “speranza” molto più di quanto avesse in precedenza o avrebbe in seguito deciso di rimarcare la parola “trasformazione”. Scrive nella nota introduttiva della Strada per Roma:

La Repubblica aveva acceso infinite speranze, ancora di più in Urbino, dove da tempo si era spenta ogni luce dell’antica grandezza, e ancora di più tra i giovani compagni che il dopoguerra riuniva nel calore di una piazza italiana di nuovo libera. Ma quella Repubblica stava già inclinando verso una restaurazione moderata [...] Da allora quasi trent’anni sono passati lungo un periodo di pratica politica e di forzoso accomodamento che ha offuscato e travolto le speranze vivide, anche se imprecise e di diverso segno, degli autori di questo romanzo […] Mi pare che quelle speranze meritino di essere riconsiderate.

La speranza dunque è – con buona pace dell’ultimo Pasolini, che non vi credeva più – il grimaldello euristico, molto più e molto prima che sbrigativamente marxiano e vocazionalmente trasformativo, dell’agire poetico e letterario di Volponi. E nel proporsi come monito e invito alla resistenza, nel senso storico-politico e nel senso filosofico-spirituale che è del «passaggio al bosco» di Jünger, rappresenta il vero nucleo paradossale – paradossale perché apparentemente passivo – della sua militanza.

La razionalità della ricerca di Volponi che si accompagna alla speranza in un mutamento metarazionale, delinea allora i due assi intorno a cui lo scrittore decide, dominato da una parte dall’afflato politico e dall’altra dall’inconscio poetico, di lasciare erompere la propria opera. Poiché in effetti il progetto di Volponi pare legato a un tentativo supremo non meno che disperante e disperato di conciliazione tra collettività (intesa anche come fatalità della storia) e singolo (inteso anche come controfatalità della speranza), tra progresso tecnico-scientifico (inteso anche come fatalità della crescita) e libertà umana e sociale (intese anche come controfatalità della resistenza e del sogno), secondo quell’antico orientamento di Adriano Olivetti che il tempo sancì nondimeno come utopistico e allo stato ancora ampiamente irrealizzato.

Eppure la speranza ha il suo dovere morale sulla storia e sull’istinto predatorio dell’uomo. E la speranza volponiana, riposta nel suo itinerario morale, è quella di contaminare positivamente, efficacemente, costruttivamente – in una parola, moralmente, secondo quella che in aeternum deve restare la moralità di sinistra – un mondo con l’altro: il mondo del capitale con quello della natura, il mondo della città con quello della campagna, la cultura con la produzione, la produzione con la cultura, l’antifinalismo scientifico con il finalismo etico della militanza socialista e comunista.

I diversi, i disadattati antagonisti, nevrotici pazzi o utopisti, svolgono nei libri di Volponi questo ruolo contaminante, tentando un positivo innesto di un mondo (che essi rappresentano per esuberanza “animale”) in un altro, che ostinatamente li esclude o respinge o integra annullandoli. E in questo processo, come rilevò Gian Carlo Ferretti, in questa mitologia viscerale volponiana, la «“passione” primordiale, pre-razionale e pre-industriale, entrando in attrito con questa realtà industriale, matura una diversa carica critica».

Ecco allora che tale ostinata contaminazione sarà in Memoriale, dove Albino Saluggia cederà alla forza burocratica della fabbrica, ma illuminandone le aberrazioni e paventando sempre l’ipotesi di una contro-alienazione; ne La macchina mondiale, in cui Anteo Crocioni sfiderà invano la ragione pragmatica degli uomini, ma non senza lasciarci l’eco della loro sublime vocazione all’incantamento; in Corporale, dove Gerolamo Aspri finirà serrato in un rifugio ai margini della società, rivelando tuttavia l’anomia e l’anonimato, il romitaggio mentale e morale come estremi e paradossali argini al rovinare del mondo; ne Il sipario ducale, che vede la fine di due “esclusi” ma non compromette perciò la nostra identificazione con la loro proibitiva lotta; e soprattutto ne Le mosche del capitale, che infine non è altro che l’estrema sintesi e l’estrema espressione del fallimento di un imprenditore-poeta, concentrato terminale, potremmo dire, del sogno volponiano-olivettiano di una sintesi tra giustizia e storia.

Cosa concludere allora, se questi sono i cardini entro i quali si agita il folle mondo di Volponi, se non che la letteratura è fondamentalmente questo, che questo deve e deve eminentemente continuare a essere? Un sacrificio della realtà al sogno?

Qualcosa si agitava, al tempo di Volponi, nel sangue degli scrittori. Qualcosa che, venutosi a perdere con l’erompere del Mercato come unico idolo del contemporaneo, ha cessato da allora in poi di costituire l’etica del narrare: sacrificare all’opera ogni oncia del nostro essere. E questa resterà in eterno la lezione di Volponi: si può cedere alla storia, alla scienza, al progresso, al denaro e al capitale; si può soggiacere alla dismisura della famelica inclinazione umana al sopruso e alle soperchierie; si può persino arrendersi alle fragilità del sogno e dell’utopia; ma sogno e utopia – o per meglio dire, Sogno e Utopia – devono persistere nel reggere la struttura più intima e profonda della nostra natura di scrittori. E se è necessario offrirsi come vittime sacrificali al disegno pervertitore del progresso, se è necessario, ieri come oggi, immolarsi all’ostracismo o alla degradazione sociale, alla disappartenenza e alla solitudine, che sia il gesto poetico sempre fermo in questa determinazione superiore, in questo eroico rifiuto della condiscendenza al destino e alla tyche.

Il mondo e la sua inconsulta crescita, la fame di potere e il suo inconsulto anelito alla sopraffazione non cesseranno? Benissimo: ma la letteratura, a sua volta, non cesserà. E se non è sorta all’animo dei ribelli per cambiare i destini dell’umano, non è sorta nemmeno per non osare quel gesto estremo, di speranza e utopia, di poterli e volerli cambiare. E la massima lezione di Volponi è indubbiamente questa: se la letteratura ha un senso, è ricordarci che l’uomo è uomo e può rimanere uomo anche a fronte della vocazione disumanizzante a cui vorrebbe obbligarlo la storia, il destino, la miseria del capitale e, in una parola, tutto ciò che in esso alligna di disumano per fargli dimenticare il suo essere poetico.

Riferimenti bibliografici
H. M. Enzensberger, “Il Verri”, n. 10, 1963.
G. Ferretti, Paolo Volponi, La Nuova Italia, Firenze 1977.
E. Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 1990.
P. Volponi, La strada per Roma, Einaudi, Torino 1991.

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