Vincitore del Pardo d’Oro della 77° edizione del Locarno Film Festival, Toxic è il lungometraggio d’esordio della regista lituana Saulė Bliuvaitė. Tratto dalle esperienze autobiografiche di quest’ultima, il film racconta le vite di Marija e Kristina, due adolescenti che provano a scappare dalla decadenza che le circonda tentando la carriera di modelle. Abbracciando facili e infantili sogni di gloria e di riscatto sociale, si iscrivono a una sedicente scuola di modelle, gestita da un’insegnante in realtà interessata a lucrare sui sogni delle proprie alunne spillando loro soldi per corsi e book fotografici.

La regista realizza un racconto di formazione degradato, anzi tossico, che parte dalle esistenze spezzate delle due protagoniste, entrambe abbandonate da loro madri, prosegue dipanandosi in una solitudine esistenziale sempre più profonda, sottolineata dai rapporti con i propri coetanei basati su una feroce competizione (il racconto si apre con un litigio furioso fra le due protagoniste) e con gli adulti, incapaci di fornire una guida e un modello che si opponga alle lusinghe del successo facile e immediato, per concludersi senza una fine vera e propria, mostrandoci le due ragazzine che continuano a vivere sempre lo stesso presente, nell’attesa logorante di una svolta esistenziale che non giungerà mai. Si tratta quindi di un racconto a spirale che sprofonda pian piano verso un abisso di nulla senza speranza, una ricerca adolescenziale della propria identità adulta che si risolve in perdita di sé stesse, in avvilimento del loro io che finisce per coincidere con la propria materialità corporale anestetizzata e quindi pronta ad essere (ab)usata in ogni modo.

Il degrado in cui le due protagoniste sono immerse viene suggerito dagli ambienti perennemente sporchi e fatiscenti in cui si muovono: dalla casa in legno con la vernice scrostata e il giardino incolto di Kristina, al terzo-paesaggio, ricco di rifiuti e di capannoni industriali, nel quale i giovani si ritrovano per bere fino a star male. Anche gli interni domestici si mostrano sporchi e fatiscenti, con la significativa eccezione dell’ampio salone in cui è situata la scuola per modelle, caratterizzato da pulizia formale e da un grande spazio arredato in modo minimale: l’illusione di una fuga verso una vita migliore è suggerita dal contrasto netto fra gli ambienti quotidiani e quello della scuola. Ciò che accomuna tutto, invece, è la magnifica fotografia di Vytautas Katkus, composta da luci fredde e naturali atte tanto a sottolineare in modo impietoso il degrado degli spazi quanto a esaltare il pallore dei corpi inerti e inespressivi di queste adolescenti aspiranti modelle.

Saulė Bliuvaitė adotta una regia ricca di soluzioni formali tese a esprimere la reificazione delle protagoniste in puri corpi. In particolare, sceglie di ricorrere a quattro espedienti stilistici: in primo luogo, inserisce diverse scene in cui vediamo le due adolescenti espletare delle funzioni fisiologiche o usare impropriamente parti del proprio corpo. Ad esempio, le osserviamo ingerire del cotone, farsi trafiggere la lingua con un ago non sterilizzato per realizzare un piercing, infilarsi a più riprese le dita in gola fino a vomitare, oppure bere superalcolici ottenuti illegalmente fino a star male e defecare in una toilette pubblica per cercare di liberarsi dai vermi intestinali. Si tratta di molteplici e crescenti forme di violenza auto-inflitte, che la regista ci mostra in modo diretto e senza filtri, tramite piani sequenza composti da campi medi in cui la macchina da presa è immobile: grazie al «rapporto inversamente proporzionale tra il grado di estroversione della rappresentazione e l’efficacia del suo impatto sul pubblico» (Gandini 2014, p. 59), la regista porta gli spettatori ad assistere a queste manifestazioni corporali con distacco, al fine di indurli a cogliere la meccanicità dei gesti e la materialità dei corpi dei personaggi.

La tendenza a ricorrere al piano sequenza accomuna anche il secondo espediente utilizzato nel film: spesso vengono inserite lunghe inquadrature che abbracciano ampie porzioni di spazio ricorrendo a campi lunghi e lunghissimi, caratterizzati inoltre dalla fissità della macchina da presa e dalla profondità di campo. Sembra di assistere a video estrapolati da telecamere di sorveglianza: il risultato sono scene in cui gli individui diventano parte integrante del paesaggio degradato in cui si trovano, realizzate per impedire loro di risaltare in esso e per costringerli invece a scomparirvi, come se venissero fagocitati dal lerciume che li attornia. Al contempo, queste scelte stilistiche inibiscono le capacità del pubblico di nutrire empatia per le protagoniste, dato che queste ultime sono inquadrate in un modo che le fa equivalere agli oggetti sparsi nello spazio. Se l’empatia si basa «sulla comprensione e sulla condivisione, da parte dello spettatore, del valore che assumono gli eventi in relazione ai desideri, ai bisogni e agli interessi del personaggio» (Malavasi, 2009, p. 85), cioè sul riconoscimento di quest’ultimo come essere umano, l’obiettivo delle strategie formali messe in atto dalla regista è quello di impedire questo riconoscimento, di de-umanizzare le attrici riprese, al fine di portare lo spettatore ad assistere unicamente alla fisicità dei loro corpi e, in tal modo, di denunciare la condizione esistenziale che le attanaglia.

Il terzo espediente è costituito dalla presenza di scene stranianti di vario tipo: possono essere stacchi che esulano dal tessuto narrativo del film, come quando, dopo una sequenza dedicata al bagno nel fiume delle protagoniste, vediamo improvvisamente il padre di Kristina e la sua amante mentre ballano in ralenti di fronte alla macchina da presa, in una scena priva di rumori naturali e caratterizzata invece da un’invasiva musica elettronica, con i due personaggi posti esattamente al centro del quadro. Oppure la macchina da presa si posiziona senza motivo dietro un ostacolo visivo, come quando attraverso una rete vediamo Marija che aiuta sua nonna a rollare una sigaretta; o può trattarsi di un’immagine apparentemente priva di senso, come le enormi lettere stilizzate, che solo dopo lo stacco si capisce essere un dettaglio ravvicinato di un’insegna luminosa al neon. Al pari delle inquadrature costituite da piani sequenza e realizzate da grande distanza descritte poco sopra, anche queste scene sono finalizzate ad inibire le capacità empatiche dello spettatore, tramite un effetto di straniamento: chi guarda si rende conto di osservare un’immagine, abitata dai corpi delle attrici ridotti a pure figure e superfici.

Ritroviamo anche la costruzione di diversi tableaux vivants, spesso ambientati nella scuola delle modelle: ad esempio, queste ultime vengono mostrate mentre siedono e aspettano, guardando fisse di fronte a loro senza parlare o muoversi; oppure le osserviamo sdraiate fra pavimento e parete appoggiandosi le une alle altre in costume da bagno, ancora immobili, senza dialogare e con lo sguardo fisso e inespressivo. In tali coreografie statiche, le attrici vengono riprese come se fossero dei manichini in una vetrina di un negozio di abiti, inespressivi e senz’anima. Al suo esordio, Saulė Bliuvaitė realizza dunque un affresco potentemente espressivo, composto da figure condannate a vivere in un inferno martoriato da una violenza disumana e diffusa, espressa mediante la staticità delle figure umane e l’inabitabilità dello spazio.

Riferimenti bibliografici
L. Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2014.
L. Malavasi, Racconto di corpi: cinema, film, spettatori, Kaplan, Torino 2009.

Toxic. Regia: Saulė Bliuvaitė; sceneggiatura: Saulė Bliuvaitė; fotografia: Vytautas Katkus; montaggio: Ignė Narbutaitė; musiche: Gediminas Jakubka; interpreti: Vesta Matulytė, Ieva Rupeikaitė, Giedrius Savickas, Vilma Raubaitė, Eglė Gabrėnaitė; produzione: Akis bado; distribuzione: Bendita Film Sales; origine: Lituania; durata: 99’; anno: 2024.

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