È già lì, nel titolo, lo spunto etico e politico che ha dato vita all’ultimo film di Jean-Pierre e Luc Dardenne: Tori e Lokita, due nomi propri che condensano tutti gli sguardi, che sono al centro non solo di una storia, ma del desiderio di ogni spettatore di avvicinarsi ad essa, di esserne parte, di condividerla come una forma di necessario riscatto della memoria. L’origine del film – lo raccontano i due registi alla fine di una intensa e generosa masterclass tenuta al Festival dei Popoli di Firenze, dove il film è stato presentato in anteprima nazionale – è infatti un articolo di giornale apparso in Belgio qualche tempo fa, in cui si raccontava la storia di due persone scomparse, che facevano parte di un gruppo di migranti arrivati recentemente nel Paese. Due ragazzi di cui si perderanno per sempre le tracce. La loro storia rimarrà non raccontata, essi entreranno nel lungo, enorme elenco di esistenze senza nome, senza visibilità.
È da qui che parte l’idea del film: restituire una storia, un volto e un corpo a due esistenze che sono consegnate all’oblio. Non si tratta (non si può trattare) della loro vera storia, perché di queste due persone non sappiamo molto. Si tratta peraltro di una possibilità, di una storia che ricade nell’ambito del possibile; quel tipo di storia che il cinema può creare, reinventare, rendere visibile. Ecco allora nascere la storia di Tori e Lokita, un ragazzino di forse 12 o 13 anni e una ragazza leggermente più grande, che si fanno passare per fratello e sorella, ma il cui rapporto strettissimo nasce in realtà durante il lungo viaggio che dall’Africa li ha portati sino in Belgio – passando per la Sicilia, dove i due apprendono da una donna che li aiuta quella che diventerà la loro canzone preferita e che credono essere una antica canzone del luogo: Alla fiera dell’est di Branduardi. Due nomi propri, due storie che diventano una, come il legame tra un ragazzino e una ragazza, che si proteggono lungo tutto il viaggio. I due sono inseparabili, o vorrebbero esserlo: Tori ha già i documenti in regola (è stato riconosciuto come perseguitato), Lokita no, e tenta in tutti i modi di averli, per poter rimanere insieme a colui che ha scelto come fratello.
Due nomi, due storie, due riscatti necessari, ovvero la necessità di creare una memoria per volti altrimenti invisibili. Per i fratelli Dardenne questo significa decidere per la vicinanza dello sguardo, per una macchina da presa che sia vicina ai due personaggi, a Tori e a Lokita, che sia capace cioè di riscattare la loro invisibilità stando “con” loro, senza “diventare” loro, senza assumere il loro sguardo. Le inquadrature infatti si susseguono in modo da seguire, insieme o parallelamente i movimenti dei due giovani, gli scarti veloci e decisi di Tori e l’andamento più lento e incerto di Lokita, mentre intorno a loro, il mondo fa sentire la sua presa gelida: il cuoco del ristorante italiano a capo di una banda di spacciatori; il gangster africano che continua a chiedere soldi a Lokita in cambio del viaggio che le ha permesso di arrivare in Europa; la commissione che valuterà la ragazza per la sua richiesta di asilo; il complice del cuoco che porta la ragazza nel laboratorio in cui si produce la marijuana che il cuoco distribuisce in città (e che Tori e Lokita spacciano nelle strade); persino gli operatori sociali che aiutano i due ragazzi nel centro per richiedenti asilo.
Tutti i personaggi che circondano i due ragazzi sono visivamente sfuggenti; rare e brevissime sono le inquadrature che ne mostrano i volti. La macchina da presa si sofferma su di loro solo se è il movimento del ragazzo o della ragazza a permettergli di entrare in campo. Quel mondo, in fondo ostile o impotente, non entra mai in relazione con i due protagonisti: la loro solitudine e la loro necessità di stare insieme, di lottare e sopravvivere insieme, è sottolineata anche dall’esclusione di tutto il resto, che rimane se non fuori campo, almeno difficilmente visibile.
La macchina da presa segue i due personaggi senza mai divagare. Li lascia andare, vagare, scappare, camminare, correre, nascondersi, fare in fretta. E ogni volta si affanna a seguirli a mantenerli all’interno dell’inquadratura nonostante la loro velocità, i loro movimenti erratici. Loro, il loro essere “due”, essere famiglia senza legame di sangue, è il movimento che si situa al centro di tutto, del film come di ogni singola inquadratura. Il resto, anche ciò che li schiaccia o li divide, quello no, rimane fuori, appena visibile. Il classico raccordo del campo-controcampo scompare. Vediamo Tori parlare con la valutatrice che ha appena respinto la richiesta di asilo di Lokita senza che la macchina da presa si alzi per inquadrare il volto della donna (che è ovviamente più alta del ragazzino). Vediamo il primo piano di Lokita ma rimaniamo con lei, mentre il suo interlocutore appena compare nell’inquadratura. Vediamo Tori correre in bicicletta e fermarsi perché i due trafficanti di corpi umani lo bloccano. Ma la macchina da presa rimane con lui, sul suo sguardo e le sue parole che non tradiscono colei che lui considera sua sorella. Al trafficante è concesso solo un breve momento, quando la macchina da presa con un rapido movimento lo mostra allo spettatore. La simmetria è negata, nessuno, mai, ha la stessa importanza dei due ragazzi. Solo loro possono essere veramente “due”.
Durante la masterclass a Firenze, Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno spesso ripetuto: “Noi siamo due, noi siamo uno insieme all’altro, ed è così che pensiamo e facciamo il cinema: se uno parla, parla anche l’altro”. Il “due” a cui i registi fanno riferimento è il due che unisce, è il germe, il nucleo originario di ogni collettività, di ogni “essere insieme”. Allo stesso modo vivono la loro esistenza Tori e Lokita, anche senza essere realmente fratello e sorella (ma scegliendo di esserlo nei fatti): il “due” per loro non è la struttura che separa, frammenta e poi unisce (appunto la regola del campo-controcampo); non è il confronto, lo scontro dialettico, il duello persino. È la scelta di essere insieme, quando il mondo ti espelle o non ti riconosce.
Ecco perché il controcampo non può essere dato nel film: quello che Tori e Lokita vivono sulla loro pelle è proprio lo squilibrio del potere, il loro essere soli, il loro essere messi da parte. Le inquadrature non possono equivalersi. Chi li sfrutta, chi li domina, li compiange, o li guarda con indifferenza non può essere come loro, non può avere gli stessi primi piani, non può essere alla loro altezza, all’altezza di uno sguardo che li accompagna. La loro storia può essere solo immaginata e quindi raccontata come tale. E questo è il gesto etico che fonda il film, il suo stesso esistere. Ridare un volto, sia pure di finzione a chi quel volto, quella visibilità non può più averla. Ma il gesto etico è alla base di un gesto politico, che è sempre nelle immagini, nel cinema. Ed è qui che si apre il finale del film, la sua secchezza, il suo découpage che non lascia scampo, ma che non abbandona i suoi personaggi, lasciando a Tori il compito dell’ultimo sguardo, dell’ultimo canto, prima che lo schermo torni nero, e l’oblio torni a rivendicare la sua priorità.
Tori e Lokita. Regia: Jean-Pierre Darnenne e Luc Dardenne; sceneggiatura: Jean-Pierre Darnenne e Luc Dardenne; montaggio: Marie-Hélène Dozo; fotografia: Benoît Dervaux; interpreti: Pablo Schils, Joely Mbundu, Alban Ukaj, Charlotte de Bruyne, Marc Zinga, Tijmen Govaerts, Nadège Ouedraogo; produzione: Archipel 35, Les Films du Fleuve, Savage Film; distribuzione: Lucky Red; origine: Belgio, Francia; durata: 88′; anno: 2022.