La ricerca di Tino Sehgal è una radicale messa in discussione dei paradigmi produttivi dell’arte. La sua pratica, apertamente anti-oggettuale, è incentrata sulla trasformazione dei comportamenti e non dei materiali, sull’instaurazione di un ambiente relazionale. Il modello produttivo proposto dall’artista anglo-tedesco, vincitore del Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2013 e protagonista della mostra alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, si presenta come la progettazione di un campo percettivo in cui lo spettatore non solo è parte attiva, ma è elemento costitutivo di quelle che l’artista definisce constructed situation, ossia situazioni costruite che coinvolgono uno o più performers, basate sull’interrelazione tra questi ultimi, il pubblico e lo spazio che li accoglie.
Il lavoro di Sehgal sembra condividere gli assunti dell’estetica relazionale teorizzata da Nicolas Bourriaud, «un’arte che assume come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale», proponendosi come «stato di incontri», «interstizio sociale», spazio per la rinegoziazione dei rapporti intersoggettivi (Bourriaud 2010, p.14). Lo scarto critico dell’artista sta tuttavia nell’impedire che questo ambito di scambi produca residui oggettuali. Sehgal, infatti, non vuole che le sue opere siano fotografate, filmate, e impedisce la consueta produzione di comunicati stampa e cataloghi. Inoltre, non ammette apparati espositivi e mediazioni curatoriali, proprio perché il suo campo d’azione è lo spazio di confine tra pubblico e performer.
Per prendere in esame la sua ricerca è dunque necessario volgere l’attenzione all’esperienza complessiva dello spazio espositivo. Gli obiettivi relazionali sono infatti perseguiti in virtù di un confronto serrato con la grammatica dell’esposizione che porta l’artista a concepire la stessa mostra come medium: una sorta di lavoro in tempo reale in cui l’atto di produzione coincide con quello di esposizione e i processi di formazione dell’opera sono svelati.
These Associations (2012), la situazione costruita che Sehgal presenta per la large scale torinese – assieme a una rimodulazione di altri suoi lavori storici, come Instead of allowing some thing to rise up to your face dancing bruce and dan and other things (2000), The Kiss (2003), Ann Lee (2011) – è una complessa e imprevedibile coreografia in cui più di 50 interpreti (così preferisce chiamarli l’artista) corrono in maniera disordinata all’interno dello spazio espositivo, intonando suoni ritmici e gutturali e interagendo con il pubblico attraverso il racconto di brevi storie personali. L’artista assegna ai performers un canovaccio di gesti e di azioni da mettere in scena, poche e semplici regole del gioco che questi ultimi sono chiamati a interpretare in rapporto allo spazio e ai visitatori, dando vita a un’articolata e modificabile rete di relazioni che non cessa di trasformarsi perché influenzata dal numero di spettatori, dai loro movimenti, dalle loro interazioni.
Claire Bishop ha parlato delle opere di Sehgal come caso emblematico di delegated performance, ovvero di attività performative non più legate ai gesti di un singolo performer ma all’azione di un un «corpo collettivo sociale», spesso composto da non professionisti del settore (Bishop 2012, p. 91). L’artista pone quindi l’accento sulla contingenza dell’esperienza e invita ad attraversare le sue coreografie come fossero spazi alternativi in cui entrare a far parte delle micro-comunità temporanee che si instaurano.
Lontano dall’hype mass mediatico cui sembrano aspirare le performance di artiste come Anne Imhof, Ligia Lewis e Maria Hassabi (in cui l’instagrammizzazione delle azioni è parte costitutiva di un lavoro che, come ha sottolineato Bishop, è a metà strada tra white cube e black box e che si nutre, anzi presuppone e necessita, di un raddoppiamento mediale, di un ri-montaggio della performance stessa tra le pagine Instagram) il lavoro di Sehgal si attesta su una dimensione prettamente esperienziale, nega la fruizione per immagini, si dà come fragile utopia che può essere conservata e prolungata solo grazie alla memoria e al racconto. In questo senso, sembra resistere a quella che Boris Groys ha definito arte-flusso – una fluidificazione della forma che porta l’opera ad adattarsi ai flussi e al presentismo del web –, configurandosi piuttosto come una rilocazione dei meccanismi della rete all’interno di una situazione costruita che produce zone comuni, spazi di condivisione, micro-comunità temporanee appunto. In una recente intervista con Hans-Ulrich Obrist, l’artista ha affermato:
Il mio lavoro condivide la natura di un algoritmo. Per una buona parte il mondo virtuale trae informazioni dall’utente, ti chiede chi sei e se vai su YouTube ti consiglia cosa guardare. È una forma di intelligenza artificiale che, seppur piccola o minore, come una bolla di dati o di filtraggio ti offre dei suggerimenti. La mia opera, alla fine, fa la stessa cosa no? Ti chiede cose come chi sei, cosa pensi? […] Credo ci sia una profonda connessione con questo aspetto algoritmico e prosumer del digitale (Sehgal 2018, p.4).
È proprio questa dimensione algoritmica del lavoro di Sehgal che avvicina la sua pratica a quella dell’installazione. L’artista, infatti, attua una «privatizzazione simbolica dello spazio espositivo pubblico […] e invita il visitatore a vivere quel luogo come spazio totalizzante e olistico» (Groys 2013, p. 36). La trasformazione dei comportamenti che persegue il suo paradigma produttivo è quindi da rapportare, in ogni caso, a questo atto simbolico di privatizzazione. La relazionalità e l’orizzontalità della sua opera sono da ripensare all’interno di questo paradosso, in cui lo spettatore è libero di agire solo in quanto parte di un ambiente che è proprietà simbolica dell’artista. Come ricorda Groys, d’altronde, «nello spazio dell’installazione ci confrontiamo con l’ambiguità del concetto di libertà che è oggi funzionale alle nostre democrazie» (Groys 2013, p.44).
Riferimenti bibliografici
C. Bishop, Delegated Peformance: Outsourcing Authenticity, in “October”, n. 140 (2012), pp. 91-112.
Id., relazione tenuta in occasione del convegno Museums at the Post Digital Turn, OGR Torino, 3-4 novembre 2017. (Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione).
N. Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano 2010.
B. Groys, Going Public, Postmedia Books, Milano 2013.
B. Groys, In the Flow, Verso, London 2016.
T. Sehgal, La mostra sconfinata, se un anno insieme vi sembra troppo poco, intervista di Hans-Ulrich Obrist, in “Il Manifesto”, speciale Tino Sehgal, 3 febbraio 2018, pp. 4-5.