“Siamo onesti!”. Con questa frase pronunciata da remoto il protagonista Charlie invoglia i suoi studenti a esercitare un pensiero critico all’interno delle rigide consuetudini retoriche della scrittura saggistica. Intanto, l’inquadratura fissa sul desktop viene lentamente inghiottita da uno zoom perdendosi negli abissi della sua webcam spenta. Il black mirror di un display fa iniziare The Whale… è già una fine (dell’immagine)?

Ecco, Darren Aronofsky non ha mai avuto timore di piegare la messa-in-scena alle percezioni alterate dei suoi personaggi e ai registri metaforici (spesso) ingombranti dei mondi che essi abitano. Pensiamo solo all’ossessione e alla dipendenza in π – Il teorema del delirio o Requiem for a Dream; alla tensione spirituale e religiosa in L’albero della vita o Noha; alla materializzazione dei fantasmi psichici in Il cigno nero o Madre!; infine ai pedinamenti iperrealisti in cerca di redenzione terrena in The Wrestler o The Whale. Due film evidentemente speculari questi ultimi, non fosse altro per la scelta di due corpi attoriali segnati indelebilmente dalla notorietà e dalle esperienze di vita come Mickey Rourke e Brendan Fraser.

Ma andiamo con ordine. Tratto dall’omonima pièce teatrale di Samuel D. Hunter (qui anche sceneggiatore) The Whale sembra una summa matura del percorso registico di Aronofsky. A partire proprio dalla scelta dello spazio ristretto della stanza come esternalizzazione delle prigioni emotive e sociali di Charlie; passando poi per il tempo del discorso che incrina in più punti il dispositivo narrativo di causa-effetto assecondando le sue altalene emotive; per arrivare infine al rapporto con il fuori campo delegato a una struggente finestra aperta sull’esterno che contempla solo la bellezza di due uccellini che mangiano. Ecco, le scelte formali appaiono funzionalissime al disegno complessivo e non risultano mai esagerate o involontariamente kitsch come alcune volte in passato. The Whale, pertanto, è un film di straordinaria economia visiva – in più punti la stanza/set sembra riprodurre le dinamiche di una sitcom, con linee d’azione centripete e linee emotive centrifughe – aderendo totalmente all’enorme (in tutti i sensi) presenza scenica di Brendan Fraser.

Chi è Charlie? È un uomo affetto da disturbo di alimentazione incontrollata: mangia per disperazione e non riesce a smettere. Pesa più di 200 kg, si muove con enorme fatica e ha una pressione arteriosa talmente alta da suggerire un fatale arresto cardiaco da un momento all’altro. Eppure, si rifiuta categoricamente di rivolgersi a un medico. Perché Charlie è lacerato dai sensi di colpa: innanzitutto per aver abbandonato la moglie e la figlia anni prima, poi per non essere riuscito a salvare il compagno (l’uomo della sua vita) dal suicidio, infine per non essere riuscito ad essere un esempio positivo per le persone che ama. Insomma, attende la morte come inevitabile e accoglie i suoi fantasmi nella speranza di sublimare le paure in un singolo istante di redenzione: “Dimmi che ho fatto almeno una cosa di cui essere fiero nella vita!”.

Quattro personaggi (reali? Immaginati? Non importa) lo accompagneranno in quest’ultima settimana di vita dando corpo ai suoi affetti e voce alla sua eredità spirituale. Un’eredità che ha sempre bisogno di filtri per essere esternalizzata: il filtro del cibo nel caso del suo dolore lacerante; il filtro della creazione nel caso della solare ricerca della bellezza. Proprio come nel saggio su Moby Dick firmato dalla figlia diciottenne Ellie: una tesina provocatoria che fa diventare il capolavoro di Herman Melville una storia personalissima sul rapporto padre-figlia. L’ossessione di uccidere la balena da parte di Achab, infatti, è la stessa che Ellie ha sempre nutrito nei confronti del genitore, in un romanzo che secondo la ragazza nasconde solo il profondo senso di vuoto del narratore (Melville o Charlie?).

Eccoci al punto: Aronofsky ha ormai la maturità di evocare stili di messa in scena codificati (dal kammerspiel, alla sitcom tv, al cinema classico) e tematiche etiche rilevantissime (che per estensione arrivano a lambire il fine vita) condensando ogni possibile significanza nel volto di un singolo attore. Sono gli occhi di Fraser, infatti, il cuore pulsante del film: occhi che smarginano dal “saggio scritto diligentemente” e trovano una propria commovente “voce nel buio”. La fisicità massiccia di Fraser rafforzata dal trucco prostetico e dalla computer grafica crea evidentemente un cortocircuito attore/personaggio (gli anni lontano da Hollywood le crisi esistenziali sono “in primo piano”) in una strategia di astrazione formale che mira alla percezione di affetti universali. Nelle insistite inquadrature del volto intenso e intensivo di Fraser, infatti, sentimenti come il dolore, il rimorso, la compassione, la paura, la redenzione, ci commuovono ben al di là delle vicende del personaggio di Charlie. E la stessa scelta del 4:3 come formato dell’immagine si smarca da ogni sospetto di vezzo tecnostalgico per diventare funzionale a questa voltificazione del visibile (per dirla con Deleuze) che esalta le potenze originarie dell’immagine cinematografica.

Il punto è proprio la sincerità. “Dite qualcosa di sincero!”, continua a scrivere l’uomo ai suoi studenti. Una sincerità che Charlie avverte in Ellie al di là di ogni duro contrasto o parola sgradevole, perché Charlie è convinto di avere una figlia che ha l’audacia di guardare criticamente il mondo incidendo positivamente sulle persone (come lui non è mai riuscito a fare). Ecco che il perdono, il sorriso e la leggerezza spirituale balenano in quell’istante, ossia nella consapevolezza di aver contribuito a spronare una voce libera che sfida le regole asettiche delle scrittura e del mondo.

“Lei lo ha salvato!”. Una dissolvenza in bianco esalta finalmente il grande schermo liberandoci dal piccolo display nero in cui idealmente eravamo stati inghiottiti. The Whale è un film coraggioso e sincero perché ancora oggi ha l’ambizione di asservire ogni pesante mediazione tecnica o estetica alla ricerca di una singola verità custodita nel volto umano.

The Whale. Regia: Darren Aronofsky; sceneggiatura: Samuel D. Hunter; montaggio: Andrew Weisblum; produzione: Darren Aronofsky, Jeremy Dawson, Ari Handel; interpreti: Brendan Fraser, Sadie Sink, Hong Chau; origine: Stati Uniti; durata: 117’; anno: 2022.

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