Hind Rajab è il nome di una bambina di sei anni ammazzata il 29 gennaio 2024 dall’esercito israeliano, in un attacco all’automobile su cui viaggiava insieme ai suoi familiari. Circondata dai corpi esanimi senza vita dei cugini e degli zii, la bambina si mette in contatto con gli operatori della Mezzaluna rossa che tentano di salvarla. Verrà ammazzata dall’esercito israeliano insieme agli operatori che erano giunti sul posto per prestarle soccorso. Questo è il fatto realmente accaduto che il film racconta, attraverso le registrazioni di quelle lunghe, interminabili telefonate in cui la bambina supplicava di essere salvata, di mandare qualcuno a prenderla per portarla a casa, mentre insieme al buio incombeva la morte. Il film racconta i tentativi disperati di trovare un percorso sicuro per l’ambulanza che doveva salvarla, senza mettere a rischio l’ultima squadra presente a Gaza. Quando l’operazione sembrava essere riuscita si odono gli spari e la voce di Hind e di chi era accorso ad aiutarla viene spenta per sempre. Hind Rajab è una dei 17.000 bambini morti a Gaza per mano dello stato di Israele.

A che cosa servono le immagini se non riescono a fermare l’orrore di Gaza? Tra le tante domande, sulla nostra condizione di esseri umani che lo sterminio del popolo palestinese pone, c’è anche questa. Domanda che si inserisce nella nota tradizione della teoria dell’immagine che si è molto interrogata sul rapporto tra immagine e reale a partire dall’evento inimmaginabile paradigmatico del Novecento, la Shoah. Il problema che si pone oggi non è quello della rappresentabilità o meno dell’orrore, problema superato nei fatti stessi dal diverso statuto di cui oggi gode l’immagine, sempre iperriproducibile e iperconnessa. Il problema è piuttosto: cosa facciamo di tutte queste immagini che riempiono i nostri feed e le nostre bacheche se ci lasciano impotenti, molto spesso insensibili, di fronte all’orrore? Immagini che non toccano più il tempo della memoria ma quello del presente che diventa già subito passato. Come è possibile che tutto ciò possa accadere letteralmente sotto i nostri occhi, gli occhi del mondo intero?

Tali domande, che possono apparire molto astratte mentre le persone di Gaza muoiono sotto le bombe del governo israeliano, in realtà sono al centro del film di Kaouther ben Hania. Narrativamente il film si costruisce intorno al gruppo di operatori che tengono il contatto con la bambina nelle sue ultime ore di vita, e allo stesso tempo cercano di parlare con realtà internazionali per trovare un corridoio sicuro per salvarla. Serve un percorso approvato dall’esercito occupante, altrimenti sarà tutto inutile e vano. E sempre sul piano della costruzione della narrazione si scontrano posizioni e sensibilità diverse: Omar, il primo a raccogliere la telefonata, vorrebbe istintivamente mandare lì i primi operatori disponibili, mentre il capo della sede operativa richiama alla prudenza, e si fa carico del peso della scelta di far aspettare la bambina nell’attesa di trovare la soluzione migliore che non metta a repentaglio la vita di altre persone. Quando si ritrovano a discutere, tra la rabbia e la disperazione, su come sia possibile negoziare con chi spara addosso ai bambini, il capo squadra decide di coinvolgere chi si occupa della comunicazione e di diffondere sui social la voce di Hind. Omar gli chiede: credi che qualcuno si farà commuovere dalla voce della bambina quando tutti i giorni si vedono immagini di bambini morti a Gaza? In altri termini la domanda che il film si pone e ci pone è: cosa ci può muovere ad agire se tutto ormai ci lascia indifferenti?

Il film sceglie una strategia chiara che viene esplicitata sin dai primi cartelli che informano lo spettatore: mettere in scena, drammatizzare una vicenda realmente accaduta. C’è la finzione, da un lato, gli attori e l’interpretazione, e c’è la registrazione vera della lunga telefonata tra la bambina e gli operatori, dall’altro. Il film si colloca pienamente in un’estetica intermediale, che necessita però di due movimenti, uguali e contrari. Il primo movimento è quello di utilizzare la finzione per ridare vita al documento mediale: la voce di Hind, che ha fatto il giro del web, ha bisogno ora del tempo lento della narrazione cinematografica per riacquistare corpo e presenza. Il secondo movimento consiste invece nel lasciare traccia di questo lavoro di ibridazione tra documento mediale e finzione: in alcune sequenze viene mostrata l’interfaccia del software per la riproduzione dell’audio, che ci ricorda che quella che stiamo ascoltando è telefonata realmente accaduta; in altri momenti, invece, le voci dei veri operatori si sostituiscono a quelle degli interpreti, i quali per pochi istanti si trasformano in spettatori della storia che stanno interpretando, mettendosi essi stessi all’ ascolto essi stessi di quelle voci disperate; infine nel momento in cui si cerca di mobilitare l’opinione pubblica attraverso i social media gli operatori fanno dei video della sala operativa durante le chiamate con la bambina e nell’inquadratura del film rientra lo schermo del cellulare che sta riprendendo la chiamata immagini dei video veri di quei momenti. Il film dunque da un lato trasforma il contenuto mediale in una storia, con tutti i rischi che questa operazione può presentare; e dall’altro dissemina nel racconto di finzione tracce e indizi che ci ricordano che si sta raccontando una storia vera e che si tratta anche di una storia che, seppur in modo diverso, era anche già stata raccontata

In questo caso e in questo momento storico non è possibile separare il valore del film da quello che racconta.  E proprio per questo la strategia adottata può dirci qualcosa di importante anche su quelle domande che si pongono oggi dinanzi alle immagini di Gaza. Per esempio può suggerire che un modo per far sì che le immagini non ci lascino indifferenti, è quello di ricostruirne le storie di cui sono testimonianza, ovvero di trasformare le tracce mediali in racconti, piccoli e grandi allo stesso tempo, singoli e universali. Ha ragione Emanuela Fanelli quando dice che il cinema ci mette di fronte alla versione migliore di noi stessi, perché soffriamo e partecipiamo alla vicende dei protagonisti sullo schermo, molto più di come non siamo capaci di fare dinanzi ad altre immagini. Però questa volta non basteranno i lunghi applausi che hanno sciolto la commozione delle prime proiezioni o eventualmente qualche premio; questa volta, dinanzi all’orrore di Gaza, dovremo riuscire a portare la versione migliore di noi stessi anche fuori dalla sala buia, perché quello che sta accadendo ci riguarda tutti.

The Voice of Hind Rajab. Regia: Kawthar ibn Haniyya; sceneggiatura: Kawthar ibn Haniyya; fotografia: Juan Sarmiento G.; montaggio: Qutayba Barhamji, Maxime Mathis, Kawthar ibn Haniyya; interpreti: Saja al-Kilani, Clara Khuri, Muʿtazz Milhis, ʿAmir Hulayhil; produzione: Mime Films, Tanit Films, RaeFilm Studios, JW Films Production; origine: Tunisia, Francia, Regno Unito, Stati Uniti d’America; durata: 89′; anno: 2025.

Tags     Gaza, Venezia 82
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