Jack Flex, protagonista di The Trainer (il nuovo lavoro di Tony Kaye dopo tredici anni di assenza dagli schermi, in anteprima alla diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma), viene presentato allo spettatore mentre prende parte a un talk show televisivo. L’uomo siede di fronte all’intervistatrice, sembra a disagio, confuso, non del tutto consapevole delle motivazioni che lo hanno portato a raccontare la sua storia davanti a milioni di spettatori. La donna lo introduce rapidamente, per poi passare alle domande: come ha fatto ad arrivare fin lì dal nulla? Quale è la realtà dietro i fatti dei giorni precedenti, un turbinio inarrestabile che ha trasformato uno sconosciuto personal trainer di basso livello in uno dei volti più noti d’America? La risposta è semplice, spontanea: “Mi era stata data una possibilità e avevo paura di sprecarla”. 

La storia a cui l’intervistatrice fa riferimento è quella che in pochi giorni sconvolge la vita di Jack, un trainer di dubbia qualifica che abita ancora con sua madre e si allena nella palestra allestita nello scantinato. Ossessionato dai programmi televisivi, in particolare dalle televendite promozionali, decide di tentare di arrivare al successo presentando su uno dei più famosi network americani la sua invenzione chiamata heavy hat, un cappello pesante da utilizzare come attrezzo ginnico. Per riuscire a far passare la promozione in diretta televisiva mente sulla sua reale professione, si finge amico e allenatore di celebrità (come Lenny Kravitz e Paris Hilton), e deve avvalersi dell’aiuto di Bee, segretaria della trasmissione che crede realmente nel progetto dell’uomo, accecata dall’amore. Nel weekend che precede la messa in onda continuano a presentarsi imprevisti sempre più gravi; quando la telecamera si accende e gli appassionati si sintonizzano sulla televendita, non tutto va secondo i piani. 

La regia di Kaye è esplicitamente condizionata dal linguaggio della televisione americana, portato all’estremo attraverso un montaggio sempre più frenetico in cui eventi reali e visioni generate dalla mente del protagonista si fondono indistintamente. Si inizia con degli spot pubblicitari, come quello amatoriale girato da Jack con sua madre per presentare l’heavy hat, passando per le televendite che contrappuntano costantemente la narrazione del film e il talk show che introduce il personaggio. Essenziale è l’evidente ripresa degli stilemi narrativi e visivi della reality tv, genere evocato a livello stilistico dai primissimi piani utilizzati per indagare al meglio la tensione sui volti e tramite l’utilizzo della macchina a mano che segue i personaggi durante gli avvenimenti. 

La sfrenata sovraesposizione mediale condiziona l’intera esistenza di Jack, trasformando il percorso del protagonista verso la realizzazione del suo sogno in un’Odissea lunga un weekend che non può prescindere dall’universo mediatico che ha introiettato nel corso degli anni. La sua ambizione però non corrisponde più all’American Dream che ha dato forma al pensiero americano delle origini: non è più possibile ottenere quella stessa mobilità sociale che dal nulla porta al grande successo e alla ricchezza contando solo sulle proprie forze, creando in autonomia un proprio posto nel mondo. Nonostante si tratti di uno dei principi fondativi della nazione, in epoca contemporanea la reale funzione dell’American Dream sembra essere più quella di creare significato e identità, un’immagine del mondo comprensibile per tutti, in modo tale da supportare l’ordine sociale (Fisher 1973). 

È un concetto manipolato a sua volta dai media, inserito nelle narrazioni della cultura popolare americana, che ne hanno però assorbito il valore al punto tale da lasciarne solamente il vuoto involucro di gloria come simulacro di una possibilità di riscatto che nella nuova società non esiste più. Jack, volto dell’americano medio e in quanto tale in grado di consentire un’immedesimazione nella sua grottesca parabola, non arriva in diretta nel suo programma preferito raggiungendo un sogno. Quella che vive, dal cui linguaggio patinato e seducente si lascia ammaliare, è un’illusione alimentata dai media e in particolare dal piccolo schermo. La TV, entrando nelle case di tutti gli americani come elettrodomestico familiare e rassicurante per avere informazioni e intrattenimento, si trasforma in un mezzo per condizionare le opinioni e le aspirazioni della massa. L’ambizione stessa del protagonista non è dettata dalla brama di fama pubblico, quanto piuttosto dall’essere riconosciuto come un vincente in ambito familiare da sua madre, desiderio realizzabile attraverso un singolo passaggio in televisione

Il pattern narrativo seguito da The Trainer è lo stesso proposto dalla reality tv, genere diventato negli ultimi decenni emblematico di un monitoraggio costante delle persone che prendono parte ai programmi e soprattutto della commercializzazione dell’identità, aspetto ulteriormente accentuato dall’inevitabile contaminazione di altre forme mediali. Come diretta conseguenza della visione di un reality, lo spettatore si chiede se quello che sta guardando è vero o no: come fare a distinguere la realtà dalla finzione? Può risultare problematico non riuscire a separarle? Non sempre è semplice rispondere, ma sono proprio questi dubbi che continuano ad alimentare il successo di questo genere in tutto il mondo. Nella maggior parte dei casi la fama ottenuta dalla partecipazione a uno di questi programmi può essere percepita come la realizzazione dell’American Dream, in quanto persone sconosciute possono diventare personaggi pubblici molto noti grazie all’ampissima audience che segue le trasmissioni. 

Seguendo la storia del personal trainer, per lo spettatore risulta impossibile comprendere quante delle sue azioni siano spontanee e quante siano invece dettate dalla profonda assimilazione del linguaggio del reality che lo porta ad agire secondo le aspettative di un pubblico in costante osservazione. Introiettando la narrazione della RTV, il tentativo di Jack di realizzare il suo American Dream non è più una sfida personale da superare per poter arrivare anche al compimento del suo percorso professionale. Si trasforma di puro intrattenimento, dove Flex, esattamente come un personaggio di un programma televisivo, attrae la curiosità altrui con un esaltato carattere unito a esplosioni emotive, conflitti e melodrammatiche risoluzioni (Edwards, 2013). In questo modo, attraverso la sua performance di fronte alla camera che lo segue costantemente mostra il suo stretto rapporto con la madre alla quale dice di ispirarsi, la negatività dei personaggi che gestiscono la rete televisiva e non credono nella sua invenzione, la storia d’amore con Bee, prima donna a sostenerlo realmente: sono tutti passaggi essenziali per ottenere il supporto dello spettatore, attratto dalla sua corsa contro il tempo per realizzare un sogno

Ad essere meno approfondita è, in modo paradossale, proprio la storia personale di Jack: i partecipanti dei reality rendono il passato e le proprie esperienze un punto di forza, per riuscire a far trasparire l’umanità anche attraverso il filtro del piccolo schermo. Tutto quello che il trainer rivela è la difficoltà che ha nell’elaborare la morte del padre, i cui ideali lo hanno influenzato sin dall’infanzia. Quando arriva il giorno della televendita, quello che potrebbe essere il turning point della vita di Flex per far ottenere al cappello pesante e a se stesso la credibilità che fino a quel momento gli è stata negata, la profonda conoscenza del programma e l’introiezione dei meccanismi televisivi creano un cortocircuito. La telecamera che lo inquadra mentre indossa la sua invenzione non riprende un uomo forte e sorridente, muscoloso e disinvolto, in grado di incarnare con la sua sicurezza il modello di benessere americano. Trovarsi dall’altro lato lo riporta indietro a quando quell’ossessione per il palinsesto televisivo era nata come uno scudo per le difficoltà familiari che aveva dovuto affrontare. Rivela per la prima volta in diretta, a stento trattenendo le lacrime, delle violenze subite da parte del padre alcolista e del difficile rapporto con sua madre che lo ha più volte messo in crisi. Afferma che ad averlo spinto fino lì è stato il desiderio di poter essere migliore dei suoi genitori e che, forse, solo vendendo il cappello potrà essere una persona nuova, dare forma a una vita diversa rispetto a quella a cui è destinato. 

Davanti alla sua fragilità, chi sta seguendo la diretta è conquistato dalla sincerità: non è comune trovarsi davanti a dei sentimenti così puri in un contesto televisivo. In poche ore, viene trasformato in un idolo globale, ricevendo ringraziamenti da decine di celebrità per aver avuto il coraggio di confessare il dolore che prova. Il patetico racconto di sé sembra però avvenire proprio nel momento migliore: del resto, l’audience della reality tv desidera momenti di autenticità e pathos, ed è proprio quello che Jack dona loro. L’illusione di poter avere una vita differente che lo spinge a tentare la via della TV è la stessa che seduce gli spettatori e li spinge a voler credere alla scena a cui stanno assistendo: l’uomo sa come sfruttare a suo vantaggio le dinamiche televisive, regalando all’America uno spiraglio in cui intravedere reali emozioni. Rivelando la sua fragilità in diretta, trasforma anche i sogni in una mossa di marketing che rientra alla perfezione nella mentalità della società in cui è cresciuto. In The Trainer la distinzione tra improvvisazione e programmazione è eliminata, oltrepassando i confini della forma filmica. Sperimentando con forme e narrazioni, si condiziona la visione dello spettatore cinematografico, illuso dal primo istante di poter dare fiducia a un personaggio che senza mai lasciar cadere la sua maschera (se non quando consapevole di rivolgersi a un vastissimo numero di persone) riesce a vendere all’America un sogno in apparenza puro che non gli appartiene più. 

Riferimenti bibliografici 
W. R. Fisher, Reaffirmation and Subversion of the American Dream, in “Quarterly Journal of Speech”, 59, 2, 973.
L. H. Edwards, The Triumph of Reality TV. The Revolution in American Television, Bloomsbury Publishing, New York 2013.

The Trainer. Regia: Tony Kaye; sceneggiatura: Vito Schnabel, Jeff Solomon; montaggio: Bob Jenkis, Robert Lee, Sam Sneade; interpreti: Vito Schnabel, Julia Fox, Steven Van Zandt, Beverly D’Angelo, Bella Thorne, Gina Gershon, Stephen Dorff, Lenny Kravitz, Paris Hilton, John McEnroe; produzione: Imperative Entertainment; origine: Stati Uniti d’America; durata: 95′; anno: 2024.

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