Nel 1936, Lee Falk iniziò le pubblicazioni di una striscia a fumetti intitolata The Phantom, destinata a riscuotere un immediato successo su scala globale, dall’India alla Nuova Zelanda, dalla Turchia alla Norvegia. In Italia, le prime storie di quello che venne tradotto come L’uomo mascherato furono pubblicate, alla fine dello stesso 1936, da L’Avventuroso, e sarebbero proseguite per decenni, coinvolgendo i lettori nelle vicende di questo strano personaggio, a metà fra Batman e Tarzan, che dal suo regno nascosto nelle savane africane non disdegnava di spingersi nelle più trafficate metropoli per rimediare a torti e congiure dei malavitosi, tramandando di generazione in generazione il proprio segreto e le proprie sovrumane abilità.

In quello stesso anno, Orson Welles stava lavorando con il Federal Theatre Project, una struttura voluta da Franklin Delano Roosevelt in persona, per ovviare alla tremenda crisi occupazionale determinata dalla Grande Depressione che, come è facile immaginare, aveva colpito con particolare violenza proprio il settore artistico e culturale, lasciando senza lavoro migliaia di attori, registi, scrittori e operatori di ogni tipo dello spettacolo dal vivo. In pratica, si trattava del primo grande intervento di carattere statale che cercava di coniugare istanze di carattere sociale con altre di natura economica e culturale, riconoscendo nelle espressioni artistiche un doppio asset strategico per il paese, nel quale era necessario investire a fondo perduto, nella convinzione che il ritorno ci sarebbe stato in termini di bilancio sociale.

In particolare, il giovane attore, che aveva già una solida reputazione nel campo teatrale, si trova a collaborare con The Negro Theatre Unit per la messa in scena del celebre Macbeth ambientato ad Haiti, con i sacerdoti dei culti animisti al posto delle streghe scozzesi, spettacolo che sarebbe passato alla storia come il Voodoo Macbeth. Una rappresentazione di formidabile successo, che avrebbe tenuto il cartellone per anni, dimostrato il successo dell’FTP e lanciato la carriera di Welles verso le più alte vette dei media radiofonici prima e quindi del cinema.

Nel frattempo, gli autori di The Phantom, dovevano stabilire i “nicknames” con cui gli adoratori di questa figura mitica si sarebbero riferiti al loro eroe, e optarono per roboanti espressioni come «the walking ghost» o «the man who cannot die», con riferimento al fatto che ogni Uomo Mascherato si assicurava di avere una discendenza alla quale trasmettere la sua funzione. Ebbene, la cosa interessante è che per il traduttore italiano «lo spirito che cammina» divenne «l’ombra che cammina» con un chiaro riferimento all’amarissima definizione shakespeariana con cui si apre il più celebre dei monologhi del dramma scozzese: «Life’s but a walking shadow, a poor player, that struts and frets his hour upon the stage and then is heard no more. It is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing».

La morale di queste due storie incrociate ha molto a che fare con il recente Macbeth di Joel Coen, per almeno due ragioni. La prima è che, vedendolo, la prima domanda che sorge spontanea è “perché”? Perché rifare oggi, a oltre 70 anni di distanza, un Macbeth cinematografico in bianco e nero, brutale e raggelato, che – al netto delle evidenti influenze bergmaniane – instaura un confronto automatico con le atmosfere espressioniste di quello che Orson Welles aveva portato sullo schermo nel 1948?

La risposta la offre lo stesso Coen nel momento in cui dichiara, nell’intervista di Peter Bradshaw su The Guardian: «I wanted to do Shakespeare for people who don’t want to see Shakespeare, or who might even be intimidated by it». Proposito curioso. Come gli studi di Paul Di Maggio hanno ampiamente dimostrato, c’è una traiettoria legata allo sviluppo sociale che influenza la biografia dei prodotti culturali. In sostanza, fino all’inizio del Novecento, Shakespeare è ancora un fenomeno “popolare”, nella misura in cui può essere utilizzato in maniera libera e creativa, nel momento in cui i suoi versi ronzano nelle orecchie dei fumettisti italiani che lo usano (a sproposito) per qualificare gli uomini mascherati che si aggirano per la jungla, oppure brutalmente delocalizzato, con un’operazione di paternalistico esotismo colonialista, per far vedere quanto universali siano i versi del Bardo, quanto anche gli afroamericani siano bravi a recitare i classici e quanto arcaiche e brutali siano le civiltà “selvagge” anche solo nei vicini Caraibi. Quindi accade che le istituzioni culturali, per come le conosciamo, iniziano a predisporre il campo dell’alta cultura e Shakespeare in quanto tale si cristallizza, diventa un oggetto “per pochi”, rispetto al quale i “molti” non vogliono avere niente a che fare o dal quale addirittura si sentono intimiditi.

Da questo punto di vista, allora, il proposito espresso da Joel collega sicuramente il film al resto della produzione che lo vede firmare come regista, dal momento che il compito che i due fratelli si sono assunti fin dal principio sembra proprio essere quello di collegare la cultura alta, di cui il loro background personale è espressione, con la pop culture: Omero e Wallace Beery, Heisenberg e l’hula hoop, Adorno e il cinerama, il nichilismo e il bowling e via discorrendo. Il problema è che, in questo caso, si sconta la latitanza di Ethan e, per quanto sia banale ricordarlo, questo significa mutilare la coppia del suo talento creativo. Così, il film si trasforma esattamente in quello che il povero Joel desiderava contrastare, vale a dire una preziosa versione cinematografica del dramma shakespeariano, tanto ben recitata e preziosa nella messa in scena quanto intimidente e respingente per chi considera le opere teatrali del drammaturgo inglese la tipica espressione di una cultura polverosa e anacronistica.

Da questo punto di vista, possiamo perciò dire che si tratta di un’occasione persa. Detto ciò, se ci si concentra su questo saggio di ciò che Bazin avrebbe chiamato con piena ragione «teatro filmato», non si può fare a meno di apprezzare non solo la straordinaria recitazione dei due protagonisti, Frances McDormand e Denzel Washington (la cui bravura non è certo una sorpresa per nessuno), ma anche quella di tutti gli altri interpreti. Fra questi spicca una formidabile Kathryn Hunter che si conferma una delle più grandiose attrici shakespeariane, nonostante i più la conoscano principalmente per via di Harry Potter. E, ovviamente, altrettanto apprezzabile è il lavoro di collaboratori storici dei Coen come il direttore della fotografia Bruno Delbonnel o il musicista Carter Burwell, e di uno scenografo amato da Tim Burton e Steven Spielberg come Stefan Dechant, tutti impegnati nella creazione di un universo figurativo al contempo astratto (come richiede la natura teatrale del testo trasposto) e straordinariamente espressivo e suggestivo, capace di valorizzare al massimo la presenza scenica e la performance degli attori. Certo, quanto a regia, il confronto con Orson Welles espone naturalmente Joel Coen a rischi dai quali non era facile venire fuori, e valga per tutti il confronto fra la morte di Lady Macbeth nei due film o il duello finale, che qui si concretizza nella mano di Macbeth che si protende ad afferrare la corona che sta volando via e lascia esposto il collo alla decapitazione, evento splatter nel film di Welles avveniva per l’interposta uccisione del pupazzo d’argilla fabbricato dalle streghe, soluzione assai più originale, evocativa ed elegante.

Alla fine, le cose davvero interessanti di questa operazione che si potrebbe definire familiare (Joel al servizio della moglie, desiderosa di dimostrare al mondo anche il suo talento teatrale) stanno probabilmente fuori dal film. Da una parte, la scelta di riportare il voodoo in Scozia, attribuendo ad attori afroamericani i ruoli maschili fondamentali (Macduff è interpretato da Corey Hawkins) che si inserisce nel clima della riscrittura della storia e della normalizzazione delle differenze razziali che da Bridgerton a Hollywood (miniserie del 2020 creata da Ryan Murphy e Ian Brennan) sembra caratterizzare buona parte della produzione americana contemporanea. Anche se, in realtà, in questo caso è soprattutto l’età dei coniugi Macbeth ad assumere una valenza simbolica che va al di là del politically correct legato all’agism. Lo dichiara lo stesso Joel Coen quando parla di un «Macbeth post-menopausa», alludendo al fatto che il collocare i protagonisti oltre l’età della procreazione presuppone lo scavalcamento del tema della discendenza che nella tragedia originale sembra essere l’ossessione del tiranno e la motivazione fondamentale delle sue azioni (del resto, come dimostra l’Uomo Mascherato, non c’è epica senza dinastia). Depurato da questo fattore, il destino di King Macbeth diventa un discorso sull’egocentrismo e l’avidità fine a se stessa, inserendosi a pieno titolo nella poetica del cinema coeniano.

Ultima notazione va riservata al fatto che il film, complice la pandemia, non ha avuto praticamente distribuzione cinematografica ed è visibile praticamente solo su Apple Tv (anche negli USA ci sono state solo sporadiche proiezioni su grande schermo e un incasso complessivo inferiore al mezzo milione). Lungi da noi fare del reducismo, ma considerate le ambizioni del film proprio dal punto di vista cinematografico, si tratta evidentemente di un paradosso. Forse è davvero venuto il momento di un Federal Theatrical Project che consenta di riavviare una certa economia e di vedere in sala film che per la sala sono stati palesemente concepiti.

The Tragedy of Macbeth. Regia: Joel Coen; sceneggiatura: Joel Coen; fotografia: Bruno Delbonnel; montaggio: Lucian Johnston, Reginald Jaynes; musiche: Carter Burwell; interpreti: Denzel Washington, Frances McDormand, Corey Hawkins, Brendan Gleeson, Harry Melling, Brian Thompson, Ralph Ineson, Sean Patrick Thomas, Miles Anderson, Kathryn Hunter, Stephen Root, Bertie Carvel; produzione: A24, IAC Films; distribuzione: Apple TV+; origine: Stati Uniti; anno: 2021; durata: 105′.

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