The Old Man & the Gun Redford

Entri nella banca lentamente, ti avvicini al bancone, poi la guardi negli occhi e dici:
signora, questa è una rapina.
Le mostri la pistola e sorridendo aggiungi:
non voglio farle del male, lei mi piace molto, quindi non mi spezzi il cuore, ok?

The Old Man & the Gun è un film scritto e diretto da un giovane regista (David Lowery), basato su una storia realmente accaduta a inizio anni ‘80 (quella del ladro gentiluomo Forrest Tucker), poi resa famosa negli USA da un articolo di David Grann (apparso sul “New Yorker” nel 2003). Ecco allora: partendo da tali premesse come può questo film essere percepito come il limpido e personalissimo testamento cinematografico di Robert Redford?

Andiamo con ordine. Negli ultimi trent’tanni – partendo dalla nota organizzazione no-profit Sundance Institute – Redford ha sponsorizzato, protetto e prodotto molti film di giovani cineasti indipendenti (pensiamo solo agli esordi di Steven Soderbergh o Kevin Smith), sino alla fondazione del Sundance Film Festival che istituzionalizza nel 1991 questa volontà. Del resto l’ultimo giovane divo delle Major classiche (insieme a Warren Beatty) diventato poi il primo vero divo della New Hollywood (il ruolo ne La caccia di Arthur Penn segna un epocale salto di paradigma), è sempre stato un corpo attoriale di passaggio: l’icona di due mo(n)di cinematografici che nel XXI secolo coagula nel suo “vecchio” primo piano i segni e le tracce di ogni stagione del cinema americano.

Arriviamo, allora, all’annuncio dell’addio alla recitazione proprio con questo film affidato a David Lowery. Non a caso uno dei “figli” del Sundance, con cui aveva già lavorato due anni fa nel sottovalutato Il drago invisibile. Siamo in Texas, nel 1981 (A Most Violent Year, lo stesso anno protagonista del bellissimo film di J. C. Chandor, altro figlio prediletto del Sundance): il vecchio rapinatore di banche Forrest Tucker, quasi ottantenne, non intende smettere di fare i suoi colpi. È già evaso 16 volte dal carcere, ha compiuto quasi 93 rapine in piccole banche della zona, ma non ha mai dovuto usare la sua arma. Come mai? Perché è “un gentlemen” dicono tutte le sue vittime, sa convincere le persone “con la sua educazione” ripetono tutti, insomma perché è talmente felice di fare il suo “lavoro” da mettere tutti istantaneamente a proprio agio. Forrest predispone un dispositivo di illusioni totalmente delegato ai suoi sguardi bonari, ai suoi movimenti rassicuranti, alle sue parole sincere, in una perfetta coreografia di gesti rituali a cui non si può non “credere”.

Ecco che la magia del cinema e dell’identificazione spettatoriale scarta dal personaggio e ritrova le sue potenze nell’archivio immaginario della carriera di Redford: ogni gesto, azione o primo piano è associato ai suoi characters sedimentati nell’immaginario popolare. Dai sorrisi sornioni ne La stangata (Hill, 1974) alle arti seduttive de Il grande Gatsby (Clayton, 1974), dalle evasioni politiche de La caccia (Penn, 1966) a quelle morali di Brubacker (Rosenberg, 1980), dai campi lunghi a cavallo di Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Pollack, 1972) sino al selvaggio richiamo della frontiera in Buch Cassidy (Hill, 1969). Per arrivare infine al melodramma di A piedi nudi nel parco (Saks, 1967) o Come eravamo (Pollack, 1973): il genere che conquista pian piano il film di Lowery nell’incontro fortuito con Jewel (interpretata da Sissy Spacek). Un’automobilista in difficoltà incontrata dopo una rapina alla quale Forrest, istintivamente, dice di chiamarsi “Bob”: ecco, nell’elementarità di questa mise en abyme c’è tutta la sincerità del cinema di Redford che continua testardamente a inseguire utopie filmate.

Il ladro Forrest, detto Bob, è seduto al ristorante con una donna che lo fa di nuovo innamorare. Ma per essere sincero sino in fondo deve tornare a fare l’attore: inizia a recitare la sua vita di rapinatore, dice che il trucco è far “credere al proprio volto e alle proprie parole”, in una danza di sguardi, dettagli, primi piani, con i due innamorati che si guardano e si corteggiano, mentre il film si ferma. Perde il proprio tempo. Attraversando i campi/controcampi del cinema classico e le slabbrature temporali della New Hollywood, per aprirsi dopo quest’evento amoroso alla serrata caccia all’uomo. Forrest è infatti inseguito dal detective John Hunt, interpretato da Casey Afflek, l’attore feticcio di David Lowery – presente in ben tre film del regista, tra cui il notevole A Ghost Story (2017) – che segna quindi un ideale passaggio di testimone.

Il giovane attore premio oscar (in difficoltà nel periodo del #metoo) interpreta un detective a cui pochi riescono a dare credito (i media in primis che ridicolizzano il suo lavoro), mentre è costretto a inseguire un ladro gentiluomo (interpretato da un’enorme icona hollywoodiana) a cui tutti “credono” incondizionatamente. Ecco che la banda dei vecchietti (formata insieme a Tom Waits e Danny Glover) inanella colpi su colpi come in una suite jazz che attraversa gli stati del Sud. Il viaggio del vecchio uomo con la pistola è contrappuntato da innumerevoli tracce cinematografiche del passato: dal serial western visto in tv al road movie Strada a doppia corsia (1971) che Forrest e Jewel vedono in una piccola sala cinematografica. La visione epifanica del film di Monte Hellman segna l’apertura improvvisa allo spirito della New Hollywood, convincendo Forrest a seguire il suo istinto di ladro perdendosi definitivamente nella wilderness.

The Old Man & the Gun è un film certamente programmatico nel suo consapevole omaggio, ma nello stesso tempo libero di sperimentare all’interno del canone proprio perché ogni orizzonte cinematografico ha già un passato testimoniato da quel volto. Un film politico (come sempre per Redford) nella Hollywood contemporanea: confidare nella credenza che il cinema ha generato, quindi credere ancora nel cinema come dispositivo di affabulazione (il western classico) e come contropotere di quelle stesse immagini (il cinema di Monte Hellman e il road movie settantesco), significa nel 2018 rivendicare un vocabolario immaginario che precede ogni abisso dell’immagine mediale odierna.

Il percorso a ritroso nella carriera di Redford è segnato dalla (letterale) associazione tra le evasioni di Forrest e le immagini d’archivio de La Caccia o Brubaker (Rosenberg, 1980), sino al momento della cattura finale suggellato da uno sparo verso la macchina da presa, come fossimo nella prima The Great Train Robbery (Porter, 1903). Un fotogramma che fissa il senso profondo di questa operazione. La fine è sempre l’origine: la storia di Forrest finisce qui, la carriera di Redford finisce qui, ma la bellezza del gesto cinematografico di “Bob il ladro” sopravvivrà a ogni addio.

“Questo tizio ha passato l’intera vita in carcere tranne i pochi periodi tra le sue evasioni!”
“Beh… qualcuno avrebbe dovuto dirgli di ritirarsi quando stava vincendo”,

“Non so… forse aveva solo trovato qualcosa da amare”.

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