«Edelweiss Edelweiss, every morning you greet me». Una nenia ipnotica è la sigla di The Man in the High Castle, serie prodotta da Amazon dal 2015. «Edelweiss Edelweiss, bless my homeland forever», conclude patriotticamente la canzone in disaccordo con le immagini che scorrono nei titoli di testa: ai simboli della storia e della cultura americana – monte Rushmore, Statua della Libertà – sono sovrapposti dei simboli di guerra (aerei, paracadute). L’ossimoro tra ciò che si vede e ciò si ascolta, nonché la ricontestualizzazione della canzone Edelweiss presa dal musical The Sound of Music (1955) e dal film Tutti insieme appassionatamente (Wise, 1965), generano una sensazione di inquietudine.

The Man in the High Castle è basata sull’omonimo romanzo ucronico di Philip K. Dick noto in italiano come La svastica sul sole ed è ambientata esattamente nell’anno di pubblicazione del romanzo, il 1962. Come il libro, la serie racconta di un mondo alternativo in cui, dopo la sconfitta degli Alleati, gli Stati Uniti d’America sono stati ripartiti tra il regime nazista (costa orientale) e l’impero giapponese (costa occidentale). Le due aree sono separate da una zona neutrale dove si rifugiano, ma senza serenità, i perseguitati da entrambi le parti. Il Giappone, solo in apparenza più liberale, ha spazzato via la cultura americana relegandola a un mero interesse da collezionisti. Ad Ovest, invece, la cultura americana anni ‘50-‘60 (auto, vestiti, ecc.) è incupita dalle terribili norme del Grande Reich nazista. Mentre la resistenza tenta di combattere i due regimi, la pace tra le due forze è precaria e il rischio di una Terza guerra mondiale è alimentato da tentativi di assassinii, colpi di stato e passaggi di informazioni segrete. La vicenda è localizzata negli Stati Uniti e solo nella seconda stagione anche in Germania. Non si sa molto sul resto dell’Europa e sull’Italia, come accade invece nel libro di Dick. O, perlomeno, non fino a questo punto della serie, dato che molte informazioni sono scoperte dallo spettatore insieme con i personaggi.

Vari elementi differiscono rispetto al libro, a cominciare dalle relazioni e dalle peripezie dei personaggi. Juliana Crain (Alexa Davalos) simpatizza per la cultura giapponese ma è inaspettatamente coinvolta dalla sorella Trudy nella resistenza. Il suo (ex) fidanzato, Frank Frink (Rupert Evans) è un artista di origine ebree che diventa partigiano dopo aver subito alcuni spregevoli eventi. Joe Blake (Luke Kleintank), innamorato di Juliana, è la spia nazista che scopre di essere uno dei figli del Progetto Lebensborn. Nobusuke Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa) è il ministro del commercio giapponese la cui lealtà verso l’impero vacilla dopo gli inspiegabili viaggi in una realtà alternativa più piacevole. Un nuovo personaggio è l’Obergruppenführer John Smith (Rufus Sewell), americano convertitosi al nazismo. Il clima di tensione è enfatizzato da un’atmosfera tetra e a tratti noir, ma la recitazione è pacata, gli attori sembrano bisbigliare anche nei momenti di panico, rabbia o sofferenza. Tutti vedranno vacillare le proprie credenze iniziali e agiranno nel tentativo di modificare lo stato di cose.

Dick accentua la condizione di sottomissione del popolo americano, noto invece per la sua indipendenza. I suoi personaggi cominciano a riflettere sulla possibilità di un mondo diverso, forse migliore, dopo aver letto il romanzo The Grasshopper Lies Heavy, proibito ma di grande popolarità, scritto dall’uomo nel castello Hawthorne Abendsen. Dunque, un romanzo nel romanzo. La serie, invece, enfatizza l’azione dei personaggi. Ciò avviene, ad esempio, con il tema della resistenza che opera attraverso la circolazione clandestina di cinegiornali, pellicole dal titolo The Grasshopper Lies Heavy di cui l’autore è ignoto ma collezionate dall’uomo nel castello Hawthorne Abendsen. Dunque, una serie nella serie. Il titolo del libro (in italiano La cavalletta non si alzerà più) e delle pellicole è una citazione dalla Bibbia probabilmente riferibile ad alcuni versi metaforici sulla morte contenuti nell’Ecclesiaste (12:5): «Quando si avrà paura delle alture e degli spauracchi della strada; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada».

Trattandosi di un prodotto audiovisivo, la scelta di sostituire il libro con le pellicole è certamente di maggiore impatto. Tuttavia, vi è un’ulteriore connotazione possibile. Nel romanzo di Dick, The Grasshopper Lies Heavy è spesso messo in discussione come il prodotto della fantasia del suo autore. Invece, i personaggi della serie non hanno dubbi a credere all’autenticità dei filmati e non sono in grado di negarne il valore di indice. In questo caso, l’effetto choc di cui parla Barthes è assicurato. Lo stesso vale per lo spettatore, soprattutto perché si mostrano momenti della Storia ufficiale che, nonostante tutto, appare più sopportabile rispetto allo scenario rappresentato dalla serie.

Delle tre pellicole proiettate nella prima stagione, due contengono immagini di repertorio. Si distinguono chiaramente Stalin, Roosevelt e Churchill alla conferenza di Jalta e le riprese aeree della caduta di Berlino nel 1945. La terza pellicola sembra invece prevedere un evento che coinvolgerà direttamente i personaggi. È qui che si rivela la serie nella serie: una bomba atomica distrugge San Francisco e alcuni superstiti, compreso Frank, vengono uccisi dagli ufficiali tedeschi, tra cui Joe.

Nella seconda stagione emerge qualche informazione in più sulle pellicole quando Juliana incontra il misterioso Hawthorne Abendsen. Il suo è un castello “metaforico”: “This is my castle”, dice a Juliana indicando la propria mente, “the conscious and unconscious mind… psyche. Carl Jung! Got it?”. Abendsen si rifugia in una sorta di magazzino e assume il ruolo di un archivista, come si intuisce dalle inquadrature delle pellicole ben catalogate per anno e divise in vari scaffali. Perché collezionarle? Chi è il vero autore? Da dove provengono? Perché giapponesi, tedeschi (soprattutto Hitler) ne sono ossessionati? Domande ancora insolute.

Nel 1962 Dick immagina un futuro alternativo in base a un diverso andamento del passato. Nel 2015 la serie ricorda quel futuro fantascientifico (da notare che Ridley Scott è produttore esecutivo della serie e Frank Spotnitz ne è autore). Ricorrendo a una nozione di Paolo Jedlowski, si può parlare di memorie del futuro. Quello di Dick è un futuro immaginato in passato che nella contemporaneità è diventato un ricordo di un orizzonte di attese non realizzatosi. D’altronde, questo sembra un tratto tipico della narrazione fantascientifica e utopica. L’utopia è la rappresentazione di un possibile parallelo, ovvero «un ampliamento della nostra esperienza oltre i limiti connessi al fatto che abbiamo una vita soltanto» (Jedlowski 2017, p. 86). Tale possibile parallelo non ha ripercussioni reali sul futuro, ma «quando permea di sé un immaginario, può trasformarsi nel disegno di un futuro possibile, e come tale può venire ricordato» (p. 87). Il confronto contemporaneo tra un futuro immaginato e quello che si è realizzato genera nostalgia, rimpianto o una spinta all’azione. Tuttavia, le narrazioni distopiche come quella di Dick e quella della serie tv sembrano piuttosto una modalità per esorcizzare un timore o scongiurarne la sua realizzazione.

L’effetto “serie nella serie” complica le cose: Absenden spiega a Juliana che ogni pellicola mostra una realtà simile ma diversa in cui le persone non sono sempre uguali. Quello che si vive è solo uno dei mondi possibili – «possibile è ciò che non è, ma che, a certe condizioni, potrebbe o potrà essere» (p. 85) – e The Man in the High Castle ne mostra parecchi: non solo lo spettatore sperimenta altre vite con la visione della serie, ma gli stessi personaggi sperimentano altre vite con la visione delle pellicole.

Alla luce di quella che si conosce come la Storia ufficiale, il futuro distopico immaginato da Dick e il suo ricordo attraverso la serie insegnano qualcosa: «Una certa consapevolezza riguardo a ciò che si è vissuto e a come si è agito nel passato. […] Valutare ciò che attendevamo, considerarne gli eventuali effetti; può istruirci ad accudire con maggiore attenzione gli orizzonti che coltiviamo ora» (pp. 97 e 99). Anche i personaggi imparano qualcosa dalle memorie del futuro rappresentate nelle pellicole. Ad esplicitarlo è proprio Hitler, l’unico che davvero vive in un castello: “Most days I watch these films and every time I learn something”. Se l’utopia è «irraggiungibile, ma seduce» (p. 89), la distopia al contrario mette in guardia e fa tirare un sospiro di sollievo perché ciò che si vede in The Man in the High Castle non è mai accaduto.

Riferimenti bibliografici
P.K. Dick, La svastica sul sole, Fanucci, Roma 2015.
P. Jedlowski, Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali, Carocci, Roma 2017.

Share