“Piuttosto che le parole del nemico ricorderemo il silenzio dell’amico”, queste sono le  parole che un musicista ebreo della Berliner Philharmoniker lascia al suo direttore d’orchestra Friedrich Mohr il quale, durante gli anni del nazismo, non ha avuto mai il coraggio di “alzarsi” per difenderlo. Fino a quando alzarsi non è stato più possibile, ma era possibile solo “restare seduti” se si voleva continuare a vivere. Mohr è sempre restato seduto nella sua vita. E quando tutto sta per crollare e l’Armata Rossa si accinge ad entrare a Berlino, Mohr vuole eseguire con la sua orchestra per l’ultima volta la “Marcia funebre di Sigfrido” dalla Götterdämmerung di Wagner. Ma sotto i bombardamenti si rivela impossibile raccogliere l’orchestra in un unico luogo, Stohr decide allora di dividerla in sette segmenti, nascosti in rispettivi bunker. E il concerto sarebbe stato trasmesso dalla radio nazionale.

Questo sembra il cuore narrativo del documentario che The Making of Berlin, un notevole spettacolo dei Berlin di Yves Degryse, in prima nazionale al Roma Europa Festival. Nella ripetizione ad inizio documentario del movimento dall’alto del drone che si avvicina al teatro di posa dove c’è Stohr, vediamo non solo palesarsi la macchina della finzione che nel “film da farsi” era stata già annunciata nella telefonata iniziale a schermo buio in cui il regista parla del film, ma sentiamo emergere qualcosa di diverso. E cioè il determinarsi di una zona di incertezza, di indecidibilità forte su ciò che stiamo vedendo, sulla veridicità documentaria di un tale grande set in cui c’è Stohr con sguardo smarrito.

Il documentario procede nella ricostruzione del dramma e nel mostrare il dolore di chi è diviso tra la codardia che non gli ha dato voce e il desiderio di riscatto e di isolamento, attraverso l’arte, dalla tragedia in corso. Ma è il the making of al centro di tutto, e lo spettacolo lo manifesta più radicalmente passando da un unico schermo di proiezione al carattere volumetrico della scena. Una scena composta da uno schermo sottile in ante piano su cui viene proiettata, tra le altre cose, la mappa di Berlino con l’individuazione dei bunker per l’orchestra, e un vero schermo in retro piano dove continuano a scorrere la immagini del film e del suo farsi. In mezzo, tra i due schermi, una musicista con uno ottone e il regista stesso alla consolle.

Ad un certo punto però, tutta la macchina mostrata del farsi del film intorno ad una verità presunta, precipita nella rivelazione di una falsità. In una scatola, in cui Stohr preservava alcuni ricordi della guerra, viene trovata la lettera della sua compagna Rosa, che comunica a Friedrich la sua decisione di suicidarsi per evitare tutto ciò che sarebbe accaduto all’entrata dell’Armata Rossa in città, gli augura successo e di confidare sempre nel suo talento. Ma quella lettera, viene scoperto, è una lettera che la moglie di una samurai scrive al marito nel Seicento. La lettera svela la finzione di Stohr, la sua invenzione. Ma fino a che punto? E perché? E soprattutto cosa fare, si chiedono regista e troupe a questo punto?

Questa invenzione, pur smentendo l’attuarsi di un accaduto (quel concerto non si è mai tenuto) non ne inficia la sua verità, che nasce proprio dall’invenzione, dall’aver fatto emergere dalla storia una linea abortita, in cui il desiderio del soggetto passa proprio nel manifestare la sua resistenza, impossibile nei fatti, nell’esecuzione dell’opera. Il regista si appropria di tale finzione e la percorre fino in fondo, va avanti. E lo fa sia in termini investigativi, cercando di capire cosa sia effettivamente accaduto (documenti ritrovati negli archivi della Berliner Philharmoniker confermano l’intenzione di fare il concerto), sia decidendo di far interpretare nel film il ruolo di Stohr dall’attore tedesco Martin Wuttke, che in Inglourious Basterds di Tarantino interpretava Hitler.  Quest’ultimo sintetizza in una battuta il carattere spesso anodino dell’aderenza ai fatti: “L’onestà è l’anticamera della noia”. Il concerto oggi si può fare, lo schermo si divide, letteralmente. Non abbiamo cioè uno split screen, ma la divisione materiale sulla scena dello schermo in più parti, ognuna delle quali mostra l’orchestra divisa nei diversi bunker che esegue Wagner.

L’indiscernibilità di realtà e finzione libera una potenza maggiore, quella che ci fa dire che la verità è effetto della finzione massima: “È vero anche se non è mai accaduto” dice Stohr. Questa verità ci dice che la Storia è anche quella del non accaduto, di ciò che poteva essere e non è stato, dove la potenza dell’immaginazione non è negazione, ma liberazione dalla immodificabilità di un nucleo traumatico che deve essere sciolto, senza negarlo ma facendosene carico fino in fondo.

Il concerto wagneriano che accade solo ora, libera immaginativamente quell’allora in cui non poteva accadere, manifestando tutta la verità tragica del momento (la morte che da ogni dove segnava Berlino), e la possibilità oggi di vedere riscattato e liberato nel concerto quel destino tragico. L’ultimo momento dello spettacolo ci mostra un ulteriore passaggio di myse en abyme: il regista in scena aziona una manovella facendo scorrere i titoli di coda, dove scopriamo che il Friedrich Mohr dello spettacolo era interpretato da una attore. Era finzione fin dall’inizio.

Questa finzione, e il suo intreccio con la realtà (dove finisce la seconda ed inizia la prima, si chiede il regista nel film) innervano completamente la forma compositiva, non riguardano solo il racconto di ciò che accaduto, ma anche la finzione attoriale che ha dato corpo ai personaggi (colui che credevamo essere realmente Stohr era invece un attore). Tutto questo fa dello spettacolo un esempio straordinario di riflessione estetica sui rapporti verità-finzione con riferimento alla Storia, apparentabile a grandi opere, non solo al Tarantino citato, ma anche al Bellocchio di Buongiorno, notte, con la passeggiata liberatoria di Moro.

The Making of Berlin. Regia: Yves Degryse; Performer in scena: Yves Degryse, Fien Leysen, Sam Loncke (alternato), Geert De Vleesschauwer, Bregt Janssens, Koen Goossens, Marjolein Demey (alternato) Rozanne Descheemaeker, Matea Majic, Diechje Minne, Jonathan Van der Beek (alternato), in video: Friedrich Mohr, Martin Wuttke, Stefan Lennert, Werner Buchholz, Alisa Tomina, Krijn Thijs, Chantal Pattyn, Symfonisch Orchestra Opera Ballet Vlaanderen, Alejo Pérez, Caroline Große, Michael Becker, Claire Hoofwijk, Alejandro Urrutia, Marek Burák, Marvyn Pettina, Farnaz Emamverdi, Il team di BERLIN: Jane Seynaeve, Eveline Martens, Yves Degryse, Jessica Ridderhof, Geert De Vleesschauwer, Sam Loncke, Manu Siebens, Kurt Lannoye, Il team dell’ Opera Ballet Vlaanderen: Jan Vandenhouwe, Lise Thomas, Eva Knapen, Christophe De Tremerie; Video ed editing video: Geert De Vleesschauwer, Fien Leysen, Yves Degryse; Montaggio Video: Maria Feenstra; Riprese con drone: Yorick Leusink e Solon Lutz; Riprese Backstage: Fien Leysen; Composizione musicale e missaggio: Peter Van Laerhoven; Musica live: Rozanne Descheemaeker, Diechje Minne, Matea Majic, Jonathan Van der Beek; Musica nel film: Peter Van Laerhoven, Tim Coenen, Symfonisch Orchestra Opera Ballet Vlaanderen diretta da Alejo Pérez; produzione: Berlin; durata: 110′; anno: 2024.

* Fotografia: Koen Broos, Gordon Schirmer.

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