Pochi registi contemporanei padroneggiano l’arte del télescopage – la capacità di afferrare in un’unica presa e osservare criticamente il passato e il presente – quanto Sergei Loznitsa. Il nuovo film presentato a Venezia e intitolato The Kiev Trial torna sulla memoria traumatica dell’Unione Sovietica, già trattata in altri film del regista, e in modo particolare sulle violenze perpetrate dalle truppe naziste in Ucraina durante la seconda guerra mondiale. Lo fa attraverso il rimontaggio di straordinari materiali d’archivio, rinvenuti fortuitamente durante le ricerche d’archivio per Babij Jar. Kontekst (2021).
Il rimontaggio dei filmati originali si srotola per un’ora e mezzo, forzando gli spettatori e le spettatrici a fare i conti tanto con gli eventi drammatici della seconda guerra mondiale quanto con la cosiddetta “Norimberga di Kiev” del gennaio del 1946 – uno dei primi processi postbellici a condannare i nazisti – e, infine, con le forme di mediatizzazione di tale processo. Il valore testimoniale di The Kiev Trial così come di buona parte della filmografia di Loznitsa (The Trial, 2018; State Funeral, 2019) si articola insomma su più livelli che possono essere separati con finalità analitiche e critiche ma che lavorano insieme.
Il primo livello è inerente ai fatti in questione. Sono le violenze sistematiche ed estemporanee che hanno caratterizzato l’invasione nazista di buona parte d’Europa, le forme di collaborazionismo, ma anche la resistenza militare e civile. Nell’alternarsi sul podio di imputati e testimoni che caratterizza tutto il film, emerge il ritratto di un’area geografica continuamente scossa, nel corso della storia, dall’esercizio della guerra e del terrore. Se il cinema di Loznitsa ha fatto più volte ricorso all’opera di Winfried Georg Szebald (il riferimento è in particolare ad Austerlitz, 2016 e The Natural History of Destruction, 2022), ascoltando le dichiarazioni di quanti presero parte al processo di Kiev – mentre osserviamo il bianco e nero finemente restaurato delle immagini d’archivio –, il tentativo di immaginare l’orrore della guerra ci spinge a un accostamento con le pagine dell’ultimo capitolo di 2666 di Roberto Bolaño, dove “villaggi ucraini in fiamme e granai in fiamme e boschi […] all’improvviso si mettevano a bruciare, come per effetto di una misteriosa combustione, boschi che sembravano isole scure in mezzo a sterminati campi di grano”.
A un secondo livello, il rimontaggio di The Kiev Trial indaga e testimonia le modalità di svolgimento del processo stesso: un evento di primaria importanza politica e istituzionale all’interno dell’Unione Sovietica uscita vincitrice e devastata dal conflitto mondiale. Ognuno degli interrogatori dei criminali nazisti e dei collaborazionisti così come ognuna delle testimonianze delle vittime sono intervallati da cartelli che specificano nomi, cognomi e qualità degli eventi in questione. Adeguandosi al meccanismo degli interrogatori, la narrazione cinematografica assume un carattere apparentemente ripetitivo e, in un certo senso, stancante. Ma è proprio nel rispetto del carattere ridondante del processo – tornando sugli stessi eventi o sulle stesse modalità di occupazione ed esercizio della violenza – che Loznitsa lascia la parola ai testimoni, li lascia affermare e confermare, uno dopo l’altro, la propria voce. D’altro canto, gli imputati confessano le responsabilità e i crimini dei quali si sono macchiati senza dare luogo a veri e propri tentativi di difesa o deresponsabilizzazione. Se, da più parti, si è descritto il film di Loznitsa attraverso l’idea di “banalità del male”, proposta da Hannah Arendt a partire dal processo Eichmann, quello di The Kiev Trial sembra al contrario un momento di piena condanna e assunzione, da parte dei criminali nazisti, delle loro responsabilità morali e giuridiche all’interno dello nuovo schema di potere post-bellico. Se Adolph Eichmann, nel processo di Gerusalemme del 1961, poté sostenere di essere stato un “esecutore” di ordini e disposizioni altrui, nonché di non aver violato leggi allora vigenti nel suo Stato, il processo testimoniato nel film di Loznitsa si basa sull’assunzione di responsabilità morale e legale da parte degli imputati, salvo rare eccezioni.
A un terzo livello, il rimontaggio di Loznitsa ci invita a fare i conti con le immagini d’archivio che abbiamo davanti agli occhi proprio mentre guardiamo il film e, dunque, con le forme di mediatizzazione del processo di Kiev. A suscitare attenzione è, fin dall’inizio, la qualità straordinaria del materiale visivo. La presenza di punti di vista stranianti – dall’alto verso il basso – sulla sala del processo e continue panoramiche tra i protagonisti: giudici, traduttori, imputati e testimoni. In alcuni casi, la macchina da presa esplora la sala del processo mediante carrelli laterali, che richiedono ampio spazio e che devono aver avuto un impatto sulle modalità di svolgimento del processo stesso. Talvolta, le inquadrature si soffermano sul pubblico, sui suoi tic e sulle reazioni alle dichiarazioni degli imputati e del giudice. In altre occasioni ancora, si ha come l’impressione di entrare dentro al fotogramma, prendere posto anche noi spettatori nel salone del processo. Infine, con le sequenze conclusive, si esce in esterno, con una serie di campi lunghi e lunghissimi, in una Kiev devastata dalle guerra e nella quale ci si appresta a giustiziare i condannati. Considerando la qualità specifica di tali filmati, si ha talvolta l’impressione di trovarci di fronte a documenti ricostruiti ex post, a immagini finzionali che simulano il documento d’epoca, una pratica del resto ampiamente diffusa ed esplorata tanto nella tradizione del film storico quanto nel contesto delle sperimentazioni intermediali contemporanee. Ma è soltanto un’impressione. Si tratta effettivamente di immagini d’epoca, accuratamente restaurate e rimontate. Ancora di più o, quanto meno, in modo diverso da quanto accade in Uno specialista – Ritratto di un criminale moderno (1999), il film di Eyal Sivan basato sui materiali del processo Eichmann, il carattere spettacolare delle immagini processuali assume una funzione centrale in The Kiev Trial. Ci invita a riflettere e avanzare ipotesi sulle ragioni di tale “regia” e dunque sulle intenzioni di utilizzo politico dei materiali filmati, sul rapporto tra istanze ideologiche, produttive e registiche.
Senza cedere alla tentazione di stabilire connessioni allegoriche semplicistiche tra il passato e il presente dell’Ucraina, The Kiev Trial è dunque una riflessione sulla complessità degli eventi storici, sull’importanza di denunciare i crimini e le responsabilità, sulle modalità di inchiesta e sulle forme di condivisione mediatica o sfruttamento propagandistico dei risultati ottenuti.
Esiste forse qualcosa di più novecentesco e, allo stesso tempo, attuale di tale intreccio?
The Kiev Trial. Regia: Sergei Loznitsa; sceneggiatura: Sergei Loznitsa; montaggio: Sergei Loznitsa, Tomasz Wolski, Danielius Kokanauskis; produzione: Atoms & Void (Maria Choustova, Sergei Loznitsa) Babyn Yar Holocaust Memorial Center (Ilya Khrzhanovskiy, Max Yakover); origine: Paesi Bassi, Ucraina; durata: 106’; anno: 2022.