Un sontuoso vestito di velluto rosso, poi un austero abito nero, indossati da una donna (Tilda Swinton), che si muove in silenzio tra le quinte di un teatro di posa. Stacco. Scorrono i titoli di testa con colorati oggetti di attrezzeria che scivolano sulla musica di Alberto Iglesias e si legge: “liberamente tratto” da La voce umana di Jean Cocteau. La libertà è quella di Pedro Almodóvar che porta al cinema la sua versione dell’opera teatrale del 1930, dichiarata fonte d’ispirazione di diversi suoi film, a partire da Donne sull’orlo di una crisi di nervi.

Una donna sola e disperata che parla al telefono con l’amante che l’ha abbandonata. La versione cinematografica più illustre del celebre monologo resta, in modo definitivo, l’episodio Una voce umana del film L’amore di Rossellini del 1948 con Anna Magnani. Il testo di Cocteau ha avuto, lo sappiamo, diversi adattamenti, cinematografici e non: da Maselli di Codice privato (1988) a Pappi Corsicato de La voce umana (2007) fino a Edoardo Ponti (2014), con l’interpretazione di Sofia Loren. Ma la suggestione della pièce è stata recepita anche nell’ambito della cultura pop, non certo estranea ad Almodóvar, come nel videoclip I Want you di Madonna e Massive Attack.

Il testo è una rappresentazione del topos della donna abbandonata (secondo gli archetipi di Didone, Medea, Arianna) e una sorta di attenta osservazione “in vitro” delle viscerali, incontrollate reazioni muliebri all’insanabile ferita d’amore, sempre foriere di un tragico destino. Almodóvar opera un netto scarto dallo sguardo “naturalistico” sulla donna prostrata dal dolore, e declina il tema dell’abbandono in un gioco ironico di multiple messe in scena.

Dopo i titoli di testa, vediamo Tilda Swinton entrare, con un cane, in un negozio di ferramenta dove compra un’ascia e una tanica di benzina, poi va a casa dove, in un angolo, sono deposte le valigie che l’amante perduto dovrebbe venire a portar via. L’ascia, le valigie, un abito da uomo disteso sul letto, sono indizi, dettagli hitchcockiani che suscitano interrogativi su cosa sia successo e cosa potrebbe accadere. La donna è sola con un cane, anch’esso abbandonato dall’ex amante di lei. L’appartamento nel quale la donna si aggira è (letteralmente) un set cinematografico, il coloratissimo set di un film di Almodóvar, con oggetti di design, citazioni pittoriche (da De Chirico, a Artemisia Gentileschi), articoli canonici dell’iconografia del lusso femminile (un flacone gigante di Chanel Nº5, un bauletto di Chanel per contenere le lettere d’amore). L’ambientazione ricorda un’istallazione di Almodóvar proprio alla Biennale d’Arte del 1993: un magazzino della Giudecca allestito come un set, pieno di oggetti colorati tra design, fumetto, pop art, alta moda.

La donna si muove nel salotto, sposta libri e Dvd (Truman Capote, Francis Scott Fitzgerald, Alice Munro, Kill Bill, Via col vento), indossa vestiti eleganti e sfarzosi, apre un cassetto pieno di ansiolitici e benzodiazepine e ne ingoia un certo numero. Poi si sdraia vestita sul letto, si alza, si riprende, si mette sotto la doccia, sente squillare il telefono ma non fa in tempo a rispondere. L’instabilità della connessione telefonica dell’originale testo di Cocteau diventa un ambiguo gioco di equivoci: la donna non fa in tempo a rispondere e mente, dicendo di essere fuori in strada; la linea cade e lei dubita che lui abbia attaccato volontariamente. Il mezzo di comunicazione è un cellulare con auricolari wireless che la donna tiene nelle orecchie mentre parla, muovendosi liberamente nell’appartamento.

Dalla conversazione telefonica capiamo che la donna è un’attrice, che recita dunque per mestiere, ma recita anche con l’ex amante col quale finge, dissimulando la propria sofferenza. Il meccanismo della messa in scena si estende alla dimensione spaziale quando la donna, parlando al telefono, entra ed esce dall’appartamento-set ritrovandosi dietro le quinte. Anche il tentato suicidio è (probabilmente) una simulazione, come rivela lei stessa. A tratti svela la verità dei suoi pensieri, a tratti continua a “mettere in scena” la sua telefonata. “Ti amavo così tanto che avevo paura di farti male” dice, in un probabile squarcio di verità, assimilando la paura di uccidere ciò che si ama (Fassbinder) alla paura/attrazione del vuoto di chi soffre di vertigini.

La vertigine del sentimento che cita esplicitamente La legge del desiderio, contiene echi hitchcockiani di Vertigo, dove la donna che visse due volte, qui vive prima e dopo una storia d’amore finita, dentro e fuori un set che è l’amore stesso, nella messa in scena che è la telefonata con l’ex amante, declinata come una esibizione teatrale. L’amore, la morte, il desiderio, sembrano essere nelle parole della donna citazioni sottotraccia del cinema di Almodóvar dai tempi di Matador.

Questo paradigma dell’abbandono in trenta minuti sembra destrutturare e riassemblare il racconto di un amore infranto con gli attrezzi del gioco scenico, capovolgendo, con ironia, l’insanabile (e forse anacronistica) disperazione melodrammatica della donna abbandonata, in una liberatoria, inaspettata uscita di scena, dopo aver appiccato un incendio. In definitiva, lo scarto del film di Almodóvar rispetto alle precedenti versioni è proprio questo: l’amore, il suo fallimento, non sono l’immediatezza di un sentimento anche tragico da esprimere, ma una rappresentazione drammatico-ironica dalla quale poter entrare ed uscire (come fanno tutte le donne nel cinema del regista spagnolo).

https://youtu.be/G4DOP4fDXto

The Human Voice. Regia: Pedro Almodóvar; sceneggiatura: Pedro Almodóvar; fotografia: José Luis Alcaine; montaggio: Teresa Moneo; musiche: Alberto Iglesias; interpreti: Tilda Swinton; produzione: El Deseo D.A. (Agustin Almodóvar, Esther García); distribuzione: FilmNation Entertainment; durata: 30’.

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