Il suono delle sirene, automobili all’inseguimento. Una bambina, una donna, un uomo alla guida. Un incidente, l’uomo spinge la donna e la bambina a scappare nel bosco autunnale, finché il suono degli spari non ci dice che l’uomo è morto e uomini armati arrivano a prenderle. La paura, il dolore della separazione, la disperazione nel tentativo di restare unite, vive, dominano la prima, lunga sequenza di The Handmaid’s Tale, serie di 10 episodi la cui prima stagione è stata prodotta da Hulu e MGM e pubblicata in streaming in Italia da TimVision. La macchina da presa resta poi per tutto il primo episodio accanto alla donna, nel cui volto è immediatamente riconoscibile la talentuosa Elisabeth Moss, indissolubilmente legata a personagge di grande complessità e problematicità come Peggy Olson in Mad Men (2007-2015) o Robin Griffin in Top of the Lake (2013 e 2017).
Questo inizio segna l’intensità di una serie dalla grande potenza visiva, coniugata a uno scenario particolarmente angoscioso, in cui la separazione forzata fra la madre e la figlia è solo la prima di una serie di violenze efferate, non sempre fisiche, inferte a delle donne, spesso per mano di altre donne, a favore di una radicalizzazione del legame fra identificazione anatomica e collocamento nella società. Nel futuro non lontano in cui la serie è ambientata, infatti, il disastro ecologico ha portato a un crollo della natalità; i fondamentalisti religiosi hanno preso il potere, e dopo aver individuato le poche donne ancora fertili, etichettate con il colore rosso delle Ancelle, le ricondizionano e le assegnano alle famiglie più potenti perché alimentino la progenie dei Comandanti, adempiendo al compito che le loro Mogli non possono portare a termine. The Handmaid’s Tale è infatti basata sul romanzo distopico femminista omonimo pubblicato dall’autrice canadese Margaret Atwood nel 1985. Nonostante siano passati oltre trent’anni fra la pubblicazione del romanzo e la produzione della serie, molte delle questioni politiche ed estetiche affrontate negli anni ottanta hanno ancora un’attualità sconcertante.
La serie si pone in continuità rispetto alla struttura narrativa scelta da Atwood, andando inizialmente a conferire l’autorità narrativa alla protagonista. Costei è immersa in un mondo distopico in cui alle Ancelle è vietata qualunque relazione con la parola che non sia strettamente legata alla comunicazione quotidiana: non possono leggere né scrivere alcunché, e ogni comunicazione verbale è rigidamente strutturata attraverso una serie di formule rituali generate dalla fede religiosa che regola ogni aspetto della vita sociale e politica. Eppure, in un momento probabilmente successivo agli eventi narrati, l’Ancella Difred (Offred nel testo inglese) è riuscita a lasciare una traccia della propria esperienza.
Questa asincronia contribuisce ad incrinare però l’aderenza e l’autorevolezza dell’autonoarrazione, a cui si aggiungono le difficoltà aperte nel testo negli ultimi capitoli del romanzo: qui Difred ribadisce con sempre maggiore frequenza la sua impossibilità a concludere il racconto iniziato, perché non è più a conoscenza degli avvenimenti; e non è certa neppure di quelli che pure riferisce, tanto che il testo si fa ricco di condizionali e costruzioni ipotetiche della frase. La definitiva messa in discussione del racconto dell’Ancella proviene infine dall’appendice, scritta in un imprecisato ulteriore futuro, in cui la teocrazia di Galaad (Gilead) è giunta al termine, e l’Associazione di Ricerche Galaadiane ha dissotterrato, trascritto e intitolato i nastri registrati dall’Ancella. L’autorità ultima va dunque ironicamente ai ricercatori che hanno restituito la voce all’ancella, permettendole di raccontare la propria storia. Nel riproporla, però, gli studiosi gettano una serie di dubbi sull’identità della donna e sulla veridicità sia del ritrovamento che del resoconto. Il romanzo, in altre parole, si colloca pienamente nella tradizione della letteratura postmodernista, in cui ci si interroga costantemente sul rapporto fra soggetto e destinatario del racconto, sulla fonte del testo e sulla sua “verità”, oltre a riflettere sulle modalità di configurazione dell’esperienza in un prodotto estetico e sul rifiuto di ogni essenzialismo della rappresentazione.
La serie al contrario ci colloca immediatamente al fianco della protagonista, la cui voice over si rivolge direttamente al pubblico in simultanea con gli eventi che si svolgono sulla scena, rivendicando in prima persona la propria agency sulla configurazione della soggettività tanto quanto la propria autorità narrativa sul racconto. Alla fine del primo episodio, infatti, l’Ancella ci rivela il proprio nome precedente, June, come strategia di soggettivazione e dunque sopravvivenza e combattimento, finalizzati al ricongiungimento con la figlia Hannah e al ricordo del marito Luke e dell’amica Moira.
The Handmaid’s Tale propone dunque un’estrema prossimità fisica, emotiva, affettiva con June, determinata dalle scelte di fotografia e messa a fuoco, dalla scala dei piani, e dall’uso del ralenti che valorizza il tempo percepito rispetto a quello cronologico. Queste scelte estetiche determinano una struttura di identificazione con le personagge, ma anche un più ampio rapporto intensivo con il mondo costruito, che con il proseguire degli episodi si popola di altri racconti e altri ricordi oltre a quelli di June. L’”estetica dell’intensità” proposta da questa serie viene infatti amplificata dalla condivisione dell’esperienza quotidiana di diverse personagge, incluse le e i carnefici, di cui si esplorano le motivazioni. In questo modo, la serie ci colloca in una posizione soggettiva di particolare difficoltà, rivelandoci la logica causale di alcune scelte che hanno conseguenze brutalmente oppressive nei confronti delle altre persone.
È soprattutto la cornice narrativa dedicata alla Moglie nella cui casa June vive, Serena Joy Waterford (Yvonne Strahovski), a rendere improvvisamente comprensibile al pubblico la ricerca di una femminilità solida, in cui la soggettività come assoggettamento alla propria dimensione anatomica prodotta quotidianamente dal patriarcato viene trasformata in un punto di forza. La donna, corporalmente determinata, può così trovare un significato ultimo per la propria esistenza nella fissità delle ritualità quotidiane tanto quanto nel proprio “destino biologico” di madre, che paradossalmente può essere adempiuto attraverso l’utero e il corpo di un’altra persona. La sua è una proposta teorica che vuole riprendere quella “mistica della femminilità”, quella celebrazione di un “femminile” caratterizzato come radicalmente “differente” dal maschile e valorizzato per le sue qualità esclusive, che era stata oggetto di studio di Betty Friedan nel 1963. Gilead in questo senso è uno spazio sia utopico che distopico: realtà utopica che “difende” la maternità e cerca di ristabilire la capacità riproduttiva del genere umano, ma per farlo produce una distopia in cui le donne sono poste come centro inerte di una struttura di sorveglianza e controllo medicalizzato dei corpi.
La presenza per le strade e nelle case di spie, ovvero l’anonimo Eye/Occhio che fa da filtro fra gli uomini dell’istituzione centrale e le donne che abitano la teocrazia, ripropone la riflessione foucaultiana sui dispositivi di sorveglianza come strumenti di produzione della soggettività contemporanea attraverso l’assoggettamento a un apparato culturale e discorsivo specifico. E The Handmaid’s Tale propone proprio una riflessione su questa dimensione in cui i soggetti divengono essi stessi strumenti di disciplina e controllo, ingranaggi degli apparati di configurazione sociale, le cui posizioni identitarie e comunitarie sono determinate dalle produzioni discorsive attorno alle strutture economiche ed ecologiche di Gilead.
L’importanza della serie sta nella sinergia fra i piani del racconto, della visualità intensa e spettacolare, della raffinatezza teorica e ideologica, il cui merito va alla collaborazione fra le registe (Reed Morano – prima regista vincitrice di un Emmy, Floria Sigismondi, Kate Dennis, Kari Skogland e Mike Barker), gli autori Nina Fiore e John Herrera, e lo showrunner Bruce Miller. Gilead è costruito come uno spazio geometrico, dalle campiture cromatiche omogenee e sature, costantemente minacciato quando non infranto dal ritorno inarrestabile del passato, tanto quanto dall’imprevedibilità di corpi vivi, anche sgraziati nei loro movimenti sinuosi e aggressivi, incapaci di sottostare pienamente a qualunque forma di controllo o regolamentazione. Le donne di Gilead continuano a lottare contro le istituzioni patriarcali, dimostrando la propria autodeterminazione e rinegoziando in ogni momento la violenza necessaria per sopravvivere.
Riferienti bibliografici
M. Atwood, Il racconto dell’ancella, Ponte alle Grazie, Milano 2017.
P. Bertetto, Il cinema e l’estetica dell’intensità, Mimesis, Milano 2016.
B. Friedan, La mistica della femminilità, Castelvecchi, Roma 2012.
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.
F. Tolan, Margaret Atwood. Feminism and Fiction, Rodopi, Amsterdam 2007.