L’apertura di The Girl with the Needle, diretto da Magnus von Horn, assume i contorni netti di una programmatica dichiarazione di intenti, nonché di una esplicita codificazione teorica dell’impianto tematico e contenutistico dell’opera. Su uno sfondo completamente nero si profilano dei volti segnati da un bianco e nero dal contrasto saturo e pieno. Volti che, mediante le tecniche della sovrimpressione e del morphing, si mescolano, con conseguente ibridazione dei connotati dei vari personaggi che si susseguono in una sequenza breve ma incisiva e dai risvolti ai limiti del surrealismo.

In questo modo, il regista pare suggerirci che i destini delle soggettività femminili all’interno del suo discorso filmico siano intrecciati al punto tale da confondersi, diventando sovrapponibili o persino interscambiabili. Inoltre, tale geometria “fisiognomica” tratteggia, sullo schermo, il chiaroscuro emotivo che tormenta i personaggi e traccia il ritratto di una mostruosità composita, riconducibile alla definizione di Shildrick, secondo la quale «monsters can signify both the binary opposition between the natural and the non-natural […] and also the disruption within that destabilises the standard of the same. In other words, they speak to both the radical otherness that constitutes an outside and to the difference that inhabits identity itself» (2002, p. 11).

La mostruosità delle soggettività che campeggiano al centro delle inquadrature di von Horn, costruite e organizzate attorno ai corpi dei suoi personaggi, è bifida e duplice. Si tratta di figure che oltrepassano la soglia di una normatività codificata in relazione al proprio sé, e la cui violazione genera un’intimità fratturata, anche in relazione all’organismo sociale dal quale sono esclusi: «In the face of the valorisation of uniformity and unity, it must be both compared and contrasted to corporeal norms in a way that reduces difference to a matter of pathology» (ivi, p. 22). La differenza, dunque, viene a coincidere con la patologia e «must be recontained by strategies of normalisation – institutionalisation, reconstructive surgery, prosthetic aids and so on» (ibidem). Quest’ultimo processo è quello a cui, sia pur con dei limiti, viene sottoposto il marito della protagonista, Karoline, di ritorno dalla Prima Guerra Mondiale mutilato dentro e fuori.

Peter raggiunge la moglie alla fabbrica in cui lei lavora, la chiama ripetutamente ma Karoline non lo riconosce perché il suo volto è deformato; spaventata e, forse, inconsciamente consapevole di chi si trova dinanzi la donna lo schiaffeggia con violenza, facendogli cadere la maschera, che l’uomo usa per coprire le ferite mostruose che gli deturpano il volto. Un dispositivo con cui Peter cerca di ricondurre sé stesso e il suo aspetto nell’alveo di una normatività imposta dal tessuto sociale a cui deve ricucirsi dopo anni di isolamento, sottoponendosi di fatto a un tentato processo di “normalizzazione”. Tuttavia, nell’universo diegetico amaramente dolente di von Horn, non sembra esserci possibilità di riscatto per la mostruosità. Karoline, infatti, ormai infatuata del suo datore di lavoro, di cui è anche incinta, lo manda via con veemenza, speranzosa di potersi costruire un futuro economicamente più stabile con Jørgen.

Questo episodio conduce Peter, come verrà mostrato nel corso della narrazione, a unirsi a una comunità circense, nell’ambito della quale la sua anomalia viene sfruttata, spettacolarizzata e commercializzata. Se, da un lato, è innegabile la volontà di ipostatizzare, attraverso il personaggio, il trauma della Guerra, che ha maciullato e poi “(ri)sputato” nel mondo dei superstiti inabili al lavoro e solcati da una profonda ferita comunicativa; dall’altro lato, nella sua opera von Horn sembra anche intenzionato a rappresentare un mondo crudele, in cui molteplici assi di oppressione si stratificano: «Freak shows were productions which staged […] various binary distinctions between ‘them’ and ‘us’. Those divisions, moreover, […] emphasised difference as inferiority. In creating such a distance, the display of abnormality served to normalise the viewing public at the same time as marking the performer as a deviant type» (ivi, p. 25). 

Una devianza che isola il soggetto, schiacciandolo anche dal punto di vista economico, in quanto gli impedisce di essere impiegato in un lavoro ritenuto socialmente accettabile. La discriminazione socio-economica coinvolge anche la stessa Karoline, respinta dalla famiglia di Jørgen, che la priva persino del suo lavoro nell’industria tessile di loro proprietà.

La combinazione tra la discriminazione di genere e quella di natura socio-economica lascia che la strada di Karoline si intersechi con quella di Dagmar. Delusa dal comportamento dell’amato e giudicata per il suo stato di gravidanza, la donna tenta di procurarsi un aborto usando un grosso ago da uncinetto, il tutto mossa da sentimenti contrastanti e per lo più di insofferenza nei confronti del bambino che porta in grembo, frutto, e perciò in certa misura simbolo, di una relazione dolorosa e sofferta. Karoline tenta di portare a termine l’operazione ai bagni pubblici, dove viene immediatamente intercettata e aiutata da una donna di nome Dagmar, la quale le consiglia di comunque partorire per recarsi poi da lei, promettendo di poter fornirle l’aiuto necessario.

La mostruosità di Karoline è tutta interiore. È la frattura materna, l’ambivalenza dei sentimenti proiettati sul proprio figlio, amato e odiato, desiderato e temuto. La particolare condizione in cui si trova la protagonista la spinge a disfarsi della neonata, pur se una inevitabile forza gravitazionale la attrae verso Dagmar e la figlia Erena. Probabilmente, nell’organismo monocellulare formato dalle due, Karoline intravede una parvenza di famiglia, un legame ideale a cui aspira e per cui, al contempo, prova repulsione. Nonostante ciò, però, decide di restare e questo la induce a instaurare un rapporto simbiotico e travagliato con Dagmar ed Erena, alla quale le viene imposto di dare il suo latte materno residuo, nonostante l’età della bambina sia ormai avanzata.

Dagmar, la cui storia è ispirata ad una vicenda realmente accaduta, convince Karoline di affidare i bambini a famiglie benestanti, ma la cruda realtà è che toglie loro la vita in modo brutale. La sua figura, al di là del referente storico, incarna un preciso impulso che vibra nell’anima di tutte le madri sole e disperate che le hanno portato i proprio bambini: quello dell’infanticidio. Motivo che, del resto, è didascalicamente espresso dalla stessa donna durante la sequenza del processo, laddove grida “ho fatto quello che loro non hanno avuto il coraggio di fare”, concretizzando «quei momenti di furia omicida rivolta contro i [proprio] figli» (Rich 2024, p. 288). Scegliendo di romanzarne la storia e di intrecciarla al percorso umano e, soprattutto, di riconnessione con il materno di una delle donne che si sono rivolte a lei, l’opera, pur denunciandone le azioni, sceglie anche di mettere in scena i tormenti e le difficoltà della maternità, personificandone, di fatto, il polo violento e negativo. E, in effetti, solo dopo la condanna di Dagmar, Karoline riesce a riconciliarsi con la maternità, a cui era stata forzata nel rapporto simbiotico di allattamento con Erena, che, tuttavia, deciderà alla fine di adottare.

L’uso del bianco e nero, profondamente influenzato dai grandi maestri del cinema nordico come Bergman e, soprattutto, Dreyer – la cui impronta è evidente tanto sul piano pragmatico quanto su quello tematico – non si limita al prologo, ma si configura come un tratto distintivo dell’intero film. Le sue motivazioni espressive non si esauriscono nella semplice volontà di collocare cronologicamente la vicenda. Pur richiamando esplicitamente la Grande Guerra, che fornisce un riferimento chiaro nelle coordinate spazio-temporali, l’opera non si vincola rigidamente alla verosimiglianza storica. Invece, il bianco e nero, attraverso i suoi contrasti luministici, in sinergia con le ambientazioni, gli angoli di ripresa e le sonorità tetre di alcune sequenze, contribuisce a costruire un’atmosfera sospesa, tipicamente fiabesca, che si tinge di macabro nel racconto di una storia terribile e crudele.

Riferimenti bibliografici
A. Rich, Nato di donna. La maternità come esperienza e istituzione, Mondadori, Milano 2024. 
M. Shildrick, Embodying the monster. Encounters with the vulnerable self, SAGE Publications, Londra 2002.

The Girl with the Needle. Regia: Magnus von Horn; sceneggiatura: Magnus von Horn, Line Langebek; fotografia: Michał Dymek; montaggio: Agnieszka Glinska; musiche: Frederikke Hoffmeier; interpreti: Vic Carmen Sonne, Trine Dyrholm, Besir Zeciri, Joachim Fjelstrup, Tessa Hoder, Avo Knox Martin; produzione: Nordisk Film, Lava Films, Nordisk Film Production Sweden, Film i Väst, Łódzki Fundusz Filmowy, Dolnośląski Fundusz Filmowy; origine: Danimarca, Polonia, Svezia; durata: 115′; anno: 2024.

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