Due uomini trasportano faticosamente una bara attraversando stretti corridoi e infine issandola sulla piattaforma di un ascensore: il tragitto, dalla strada del quartiere fino all’interno di un appartamento, scandito dalle lamentele sulla pesantezza della cassa, si conclude nella stanza di un vecchio e disordinato appartamento nel quartiere cattolico di New Lodge, a nord del centro città di Belfast.

Il complesso di New Lodge, che vediamo spesso inquadrato, dominato da blocchi di palazzi a dodici piani, ospita una molteplicità di storie di vita che emergono nel racconto che Alessandra Celesia fa dei troubles. Alcune sono indagate per maggior tempo, come quella di Joe che a soli nove anni dovette assistere alla morte del giovane zio Cocke; o come quelle di Angie e Jolene, entrambe vittime di violenza. Altre, invece, anche restando ai margini del film, sono storie che attirano la nostra curiosità e che ci piacerebbe seguire e conoscere. New Lodge, il luogo che Celesia filma in The Flats, è un microcosmo di memorie individuali e collettive che si depositano in quegli appartamenti evocati nel titolo: appartamenti che, come nel caso di quello di Joe, sono saturi, materialmente e astrattamente, di frammenti e residui di vite trascorse.

Alessandra Celesia ritorna al Festival dei Popoli, dove era già stata premiata nel 2013 per il suo Il libraio di Belfast (2012) e lo fa con un film ambientato nella stessa città. Nonostante siano passati più di vent’anni dal Good Friday Agreement (1998) – l’accordo di pace che pose fine, almeno sulla carta, al conflitto civile tra la maggioranza Unionista protestante e la minoranza Nazionalista Cattolica – la città che la regista filma è ancora una città frammentata, in cui è impossibile riconoscere un’identità unica e compatta.

Come sottolineano gli studiosi O’Rawe e Phelan (2016) in un bel volume dedicato alla riscrittura della memoria culturale delle città post-conflitto, in cui Belfast merita un posto d’onore, le città e i ricordi, sebbene siano entità completamente differenti, le prime materiali e concrete, le seconde astratte e sfuggenti, sembrano fondersi perfettamente: la memoria, individuale e collettiva, si scrive e si riscrive senza sosta nei monumenti storici, nei corpi umani e negli atti di mappatura e rappresentazione dei luoghi urbani.

Come un vero processo di rielaborazione, filmare The Flats ha una lunga gestazione della durata di sette anni: si tratta un lucido lavoro di dissezione sia delle immagini (quelle d’archivio, quelle del reenacment) che delle parole (quelle della seduta di terapia, quelle scambiate tra gli abitanti del quartiere, quelle poche rimesse in scena nelle rievocazioni).

A proposito, si noti il lavoro sui colori delle immagini d’archivio che, denaturalizzati, assumono delle sfumature blu, come a depotenziare il loro valore informativo ed esplicativo, per essere consegnate all’espressione mentale dei ricordi di Joe che rivede in prima persona i filmati (come, ad esempio, il funerale dell’attivista e politico Bobby Sands). Riconfigurando il loro statuto di documento, i filmati sono a metà tra essere materiale di un archivio televisivo, dunque pubblico e collettivo, e materiale di un archivio personale, una memoria individuale e privata.

Una memoria privata che emerge specialmente nel reenacment della storia di Joe che ricostruisce l’episodio della veglia dello zio Cocke a partire da un frammento di immagine che sembra essersi incagliato nella mente dell’uomo: un cerotto sul naso del defunto, colpito alla nuca da un proiettile poi fuoriuscito dal naso, che Joe stesso pone sul viso dell’”attore” che interpreta lo zio. È Joe, infatti, e dopo anche Angie e Jolene, ad essere regista della propria messa in scena dirigendo i corpi degli attori e decidendo la posizione degli elementi profilmici.

La regista è attenta a non dare indicazioni troppo ferree, lasciando al protagonista la libertà di guidare le ricostruzioni in una serie di esperimenti di reenactment che, solo dopo settimane di prove, giungono alla forma definitiva che vediamo nel film. Il training di composizione e realizzazione delle rievocazioni ricorda la fase di “riscaldamento” tipica della teatroterapia in cui il paziente/protagonista, condotto dallo psicodrammatista, inizia ad esprimersi liberamente in una condizione di multidimensionalità fisica, mentale e temporale essenziale alla presa di coscienza dei propri processi inconsci (cfr. Moreno 1985).

Le scene di vita rievocate, ripetendosi, rinnovano ritualmente gli eventi traumatici delle vite degli abitanti di New lodge, ma allo stesso tempo riconnettono “attivamente” i soggetti con l’evento originale: la ripetizione difatti non si identifica mai totalmente con l’evento a monte perché si introduce in essa un differenziale, una perturbazione (Margulies 2019), un elemento fantastico e fantasmatico che manca all’evento traumatico originale perché rimosso (Nicholson 2008). Ricordiamo che la rievocazione come esperienza incarnata non diminuisce il “valore documentario” del film, anzi, benché si tratti di una ricostruzione finzionale, è proprio rimettere in scena nella finzione ad avvalorare l’autenticità dei ricordi e delle immagini, ri-performate per essere archiviate.  

Alle fondamenta del film vi sono, allora, la valenza sociopsicologica dell’esperienza teatrale e la potenza terapeutica del cinema, come dimostrano le sedute, filmate dalla regista, che Joe fa con la sua terapeuta Rita. Partecipare ad un momento così privato, stare “accanto” all’evento richiede una particolare cura e, soprattutto, la frequentazione prolungata delle persone e dei luoghi da filmare: Celesia è un esempio di documentarista come “spectateur engagé”, direbbe Gauthier. Solo grazie al tempo condiviso, è possibile instaurare un legame di fiducia, divenire invisibile, ma allo stesso tempo facilitatore del flusso mnesico e testimoniale dei soggetti filmati.  

Ecco che la presenza della macchina da presa non ostacola la relazione terapeutica nel suo svilupparsi, semmai la facilita, divenendo presto un acceleratore del getto confessionale. Ciò è formalmente restituito dai lenti movimenti di macchina, a volte sostituiti al rapido taglio di montaggio del campo contro campo: riusciamo così a percepire in prima persona lo “spazio terapeutico”, i sospiri, le lacrime e i silenzi dell’analisi.

Chi ha condotto la terapia? La terapista Rita? Joe, Angie e Jolene? Oppure Celesia stessa? Nella coesistenza di diversi “tempi” – il tempo passato rivisto nelle immagini d’archivio e affrontato nel reenacment; il presente “sentito” durante le sedute d’analisi; il futuro auspicato e incarnato dai bambini del quartiere – anche le posizioni di analista e analizzante, come quelle di regista e soggetto filmato, perdono rigidità e si fluidificano. La questione resta in sospeso ed è in questa sospensione, frutto di un lavoro di creazione collettiva, che si ritrova la potenza affettiva e politica di un film come The Flats.  

Riferimenti bibliografici
J. Levi Moreno, Manuale di psicodramma. Vol. 1: Il teatro come terapia, Astrolabio Ubaldini, Roma 1985.
D. O’Rawe, M. Phelan, Post-Conflict Performance, Film and Visual Arts. Cities of Memory, Palgrave Macmillan, Londra 2016. 

The Flats. Regia, sceneggiatura: Alessandra Celesia; fotografia: François Chambe; montaggio: Frédéric Fichefet; musiche: Brian Irvine; interpreti: Jolene Burns, Joe McNally, Sean Parker, Rita Overend; produzione: Films de Force Majeure, Thank you & Good Night Productions, DumbWorld, Planet Korda Pictures, Graffiti Doc; distribuzione: Les Alchimistes; origine: Italia, Francia, Belgio, Irlanda; durata: 114’; anno: 2024.

Tags     Belfast, reenactment, terapia
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