Nella cornice della prima edizione di UnArchive Found Footage Fest – il festival realizzato dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico sul riuso creativo delle immagini, co-diretto da Alina Marazzi e Marco Bertozzi – le immagini dell’evento speciale d’apertura sono affidate allo sguardo di Werner Herzog, con la proiezione di The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft; un film che trova qui, in un festival dedicato al found footage, un’ulteriore occasione di visione e, soprattutto, un’ulteriore occasione per ripensarne la potenza.
Katia e Maurice Krafft sono stati due famosi vulcanologi francesi apparsi già in una sequenza di Dentro l’inferno, il film che il regista tedesco ha dedicato alla potenza, nel reale e nell’immaginario, dei vulcani. Una sequenza breve su due scienziati che hanno dedicato la loro vita a studiare (e filmare) i vulcani e che sono morti durante una delle loro spedizioni, travolti dall’eruzione del Monte Unzen, in Giappone. Una sequenza, una traccia, appunto formata dalle immagini realizzate dagli stessi due scienziati. Ma come spesso succede, il cinema di Herzog si sviluppa come un percorso aperto, un cammino: una traccia diviene successivamente un film, un’immagine si trasforma nel punto di partenza di una storia. Ed ecco allora, a distanza di qualche anno, The Fire Within, in cui il regista bavarese lavora le immagini girate dai due vulcanologi/registi nel corso della loro carriera.
Tutto il film è composto dalle immagini girate nel corso dei decenni dai due vulcanologi. Ma non si tratta di presentare quelle immagini, non si tratta di usarle per dare più forza ad una tesi, né si tratta semplicemente di raccontare una storia, la loro biografia. Il film di Herzog è qualcosa in più. Man mano che il flusso delle immagini scorre, man mano che quei volti e quelle parole entrano nella nostra esperienza visiva, The Fire Within si svela essere una forma poetica attraverso la quale riflettere sul senso stesso dell’immagine cinematografica del reale. Herzog declina il found footage in un modo del tutto peculiare: le immagini sono lì per ripensarne lo sguardo che le ha originate; esse non sono testimonianze di un passato, ma sono lì, davanti a noi. Proprio per questo vanno accolte, incorporate, interrogate, finanche combattute.
Il regista parla con noi di loro, non per celebrarle, ma per far sorgere qualcosa dall’incontro che si realizza in quel momento, qualcosa che appartiene al cinema stesso: una sorta di origine, del venire all’essere del cinema. L’operazione è poetica e teorica al tempo stesso: ogni immagine è per Herzog qualcosa di più di ciò che mostra, essa è sempre occasione di pensiero, di viaggio nel tempo e nello spazio, di trasfigurazione: come le immagini della Nasa usate in L’ignoto spazio profondo “per il loro senso poetico”, o le immagini subacquee girate nel Polo Sud da Henry Kaiser, che saranno anche lo spunto per Incontri alla fine del mondo nel 2007.
Di fatto questo accade costantemente nel cinema del regista tedesco; un cinema attraversato da uno sguardo sempre orientato a cercare qualcosa tra le immagini, a interrogarne la potenza, la capacità di andare al di là di loro stesse, di rivelare il tempo di cui sono composte. Basta pensare al corpo a corpo tra Herzog e le immagini girate da Timothy Treadwell in Grizzly Man, in cui i filmati del giovane attivista animalista sono messe in questione da Herzog, che non ritrova in esse uno sguardo a lui affine. Ma qui, nelle immagini girate dai coniugi Krafft il discorso cambia radicalmente: “C’è qualcosa in quelle immagini che mi colpisce potentemente come regista”, afferma Herzog all’inizio del film. Non si tratta di fare un’altra biografia dei due scienziati, continua Herzog, ma di celebrare “la meraviglia delle loro immagini”. Mentre ascoltiamo queste parole, pronunciate dalla voce inconfondibile del regista, osserviamo qualcuno (forse Maurice? Forse Katia?) coperto dalla testa ai piedi da una tuta termica, passeggiare a poca distanza da un fiume di lava che scorre potentissimo lì accanto.
La meraviglia delle immagini. È questa la sensazione che dominava lo spettatore all’origine del cinema, la meraviglia, lo stupore. Gli occhi che si spalancano di fronte a corpi, gesti, paesaggi enormi che si muovono con la consistenza del fantasma; eppure essi sono lì, di fronte al nostro sguardo, testimoniano un incontro con il reale, con la sua eccedenza. Al tempo stesso, ricordava Ėjzenštejn parlando di animazione, il fuoco è il primo grande spettacolo cinematografico: un cinema puro fatto di una forma che muta costantemente, e che ci cattura con la forza del suo movimento ipnotico. Sono questi i pensieri che si agitano di fronte alle immagini dei Krafft. Filmare un vulcano, filmare la potenza del fuoco significa veramente farsi contagiare dal movimento senza fine della luce, che è di fatto, all’origine, la potenza dell’immagine. Quella che attraversa The Fire Within dall’inizio alla fine.
Il fuoco dentro. Attraverso un lavoro costante di montaggio, commento parlato e musicale (le splendide composizioni di Ernst Reijseger), Herzog racconta il senso profondo delle immagini girate dalla coppia; soprattutto mostra e racconta un passaggio quasi inafferrabile eppure straordinario, un percorso genealogico che porta il lavoro di documentazione filmica dei due vulcanologi – che all’inizio si filmano durante le misurazioni, le analisi condotte sul campo – a diventare puro cinema, come sottolinea Herzog.
Una delle sequenze del film mostra le immagini dell’eruzione di un vulcano in Islanda, le cui polveri seppelliranno letteralmente un villaggio vicino. La macchina da presa è letteralmente catturata dal fascino della lava, dei lapilli, dell’atmosfera incandescente che trasforma la materia solida in un fiume rosso. Le nuvole di polvere che brucia ricoprono di nero il cielo e si depositano sulle case bianche del villaggio. Quelle immagini non sono documenti, afferma Herzog, esse sono la potenza del cinema che cattura il mondo come trasformazione, potenza distruttiva e creativa.
Un corto circuito mentale si impadronisce allora dello spettatore. Le immagini della cenere nera di un vulcano che ricoprono le case bianche di un villaggio islandese appaiono anche in quell’altro capolavoro di found footage che è Sans Soleil di Chris Marker (1983). Nel film di Marker, le immagini di apertura sono le inquadrature di tre bambini in Islanda, negli anni sessanta (“Quella era per lui l’immagine della felicità”, commenta la voce del film). Quei bambini, scopriremo poi, abitavano proprio lì, in quel villaggio che sarà poi, anni dopo, sepolto dalle ceneri del vulcano. Per realizzare quella sequenza Marker saccheggia le immagini girate in Islanda da Haroun Tazieff, altro geniale vulcanologo regista, autore di Le Volcan interdit (1966), il cui testo è scritto dallo stesso Marker.
Un corto circuito tra due (tre) film meravigliosi. Lo stesso luogo, lo stesso evento, evocato in due film diversi, ma accomunati dal lavoro straordinario sulle immagini d’archivio. Ma sono le differenze a colpire. Se in Marker è l’ellisse temporale tra le immagini dei tre bambini e l’immagine del villaggio ricoperto di cenere nera a creare cinema, in Herzog quelle immagini sono l’occasione per dispiegare ancora una volta la meraviglia dell’origine: l’occhio spalancato che ritrova lo stupore primigenio dello spettatore cinematografico e lo fa rivivere, come grande gesto poetico, come fiducia nella potenza delle immagini. Il villaggio ricoperto di cenere di Tazieff/Marker è il segno di un’immagine del passato che è sempre sul punto di perdersi: dove sono ora quei tre bambini filmati in Islanda? Dove erano il giorno dell’eruzione? Il villaggio filmato da Matia e Maurice Krafft e ripreso da Herzog è un ulteriore segno della potenza trasformativa del mondo, del suo movimento costante, del fascino di un cinema che cerca di coglierla pienamente.
Herzog, Katia e Maurice Krafft, Marker: al di là di tutto, questi nomi sono legati da un costante movimento, da una ricerca continua di nuove immagini: ecco perché i registi entrano in un dialogo profondo in un gioco di riferimenti continui. Ecco infine perché il film di Herzog si pone come un saggio poetico sulla potenza originaria del cinema che le immagini di Katia e Maurice Krafft sono riuscite a catturare. Il fuoco dentro è ciò che le immagini incidono nel tessuto della memoria e del pensiero, e che ogni visione libera in noi. Lavorare l’archivio significa anche appropriarsi della sua potenza.
The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft. Regia: Werner Herzog; sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Henning Brummer; montaggio: Marco Capalbo; musica: Ernst Reijseger; produzione: Bonne Pioche, Brian Leith Productions, Titan Films; distribuzione: Arthouse, I Wonder Pictures; origine: Gran Bretagna, Svizzera, USA, Francia; durata: 84’; anno: 2022.