La Storia americana non può prescindere dalla narrazione epica delle imprese dei pionieri del West. Eroi glorificati dallo sguardo contemporaneo, che ne romanticizza le gesta e vede nella brama di conquista della frontiera la sfida originaria in cui affondano le radici del pensiero dello stesso Paese. Nel cinema western vengono mostrate le vicende di valorosi uomini disposti a sacrificare tutto per il bene della nazione, compresi i loro affetti: è proprio questo ne conferma la superiorità morale che li rende modelli per chi li osserva sullo schermo. La relazione per loro più importante è quella che vede in primo piano il rapporto con la propria terra (d’origine o scelta a seguito dell’immigrazione nel continente), da scoprire e da proteggere. In questo binomio uomo-America, le figure femminili hanno, nella maggior parte dei casi, un ruolo secondario, legato molto spesso a stereotipi (moglie, prostituta, sorella, nipote) che le rendono funzionali all’azione ma prive di profondità. Con The Dead Don’t Hurt, western ambientato nella seconda metà dell’Ottocento, il regista Viggo Mortensen mette al centro della narrazione una donna, svincolandosi dalla tradizione.
Per quanto figure femminili interessanti ed eccezioni emergano nella storia del cinema western – basti pensare a Vienna in Johnny Guitar (Ray, 1954) – la prospettiva maschile continua a dominare nel genere: i ruoli delle donne all’interno della narrazione, infatti, tendono sempre a essere in accordo con la prospettiva e le aspettative maschili sul comportamento femminile (Sohakel, 1987). Mentre l’uomo tende ad essere colui che instancabilmente vaga per l’America in cerca di nuove avventure e incarna l’azione, la donna è passiva, sia a livello caratteriale che a livello fisico, e tende a identificare in sé i nuovi valori della nazione e della civilizzazione. La sua funzione è consolatoria e di sostegno per il suo compagno: riporta momentaneamente la traiettoria dell’eroe che tende verso l’esterno, l’esplorazione, in direzione dell’interno, i luoghi domestici o le stanze di una locanda, per dargli sostegno. La donna, quindi, trova legittimazione nel prendersi cura dei luoghi domestici durante l’assenza dell’altro. Raramente riesce a emergere come protagonista, emergendo dal ruolo di secondo piano che la vede dipendente dall’autorità maschile.
The Dead Don’t Hurt segue le vicende di Vivienne Le Coudy, originaria del Canada francese; si trasferisce in America da bambina e cresce con la madre, dopo la scomparsa del padre a seguito della guerra. Da sempre non vuole cedere alle imposizioni della società patriarcale, ispirata anche dalla lettura delle battaglie di Giovanna D’Arco. Dopo un periodo passato a San Francisco, in cui lavora come fioraia e frequenta un uomo che a stento sopporta, conosce casualmente Holger Olsen, falegname di origine danese, veterano di guerra dallo spiccato senso di giustizia. Accetta, in nome dell’amore che prova per lui, di seguirlo in Nevada. Nella nuova terra, dove la coppia dovrebbe costruire la propria felicità, la protagonista si trova ad affrontare una serie di difficoltà, molto spesso causate dal ricco Weston Jeffries e dalla sua ostilità, che la porteranno a morire pochi anni dopo per sifilide.
Sin dai titoli di testa, è evidente come la figura di Vivienne sia il cuore pulsante della narrazione; ancor prima di vederne il volto, se ne ascoltano i respiri. È stesa su un letto, agonizzante, mentre lo sguardo dello spettatore ne accompagna gli ultimi istanti prima del decesso, pur non conoscendola ancora. Olsen le tiene la mano, ma siede di spalle rispetto alla macchina da presa; Mortensen sottolinea attraverso la disposizione iniziale dei personaggi quanto tutta la narrazione ruoti attorno a Vivienne, indipendentemente dalla sua scomparsa fisica. Il film inizia con un’assenza, che viene colmata attraverso continui flashback che alternano l’infanzia della donna alla storia d’amore. Mentre il compagno è in guerra, non vengono mostrate le sue battaglie e i suoi spostamenti, il suo vagare per il Paese, seguendo quindi il pattern del western classico. La narrazione continua a seguire la quotidianità di Vivienne. È nei momenti di solitudine, in cui deve riuscire a trovare un proprio posto in un luogo per lei inospitale in quanto straniera ridefinisce le norme prestabilite dalla tradizione. Continua a occuparsi dello spazio domestico, ma questo non diventa il suo personale Eden che ne delimita il campo d’azione; lo fa per creare un ambiente ospitale in cui lei stessa, in quanto immigrata, possa stabilirsi e chiamare casa, sentendosi americana a tutti gli effetti. Ogni miglioria apportata al giardino o all’interno del casale è un modo per riuscire a imporre la sua personalità in quello che la circonda. Ancor prima della partenza di Olsen, inoltre, rifiuta il matrimonio per mantenere la sua indipendenza e inizia a lavorare nel saloon della città per trovare una sicurezza economica che le garantisca di poter vivere senza essere comandata da un uomo.
Nella classicità, il ruolo dello spazio domestico curato da Vivienne dovrebbe assumere un ruolo rassicurante in grado di accogliere il movimento che dall’esterno riporta verso l’interno l’eroe che torna dal suo vagare. In The Dead Don’t Hurt, al contrario, il movimento dall’esterno verso l’interno dello spazio abitato assume un carattere negativo, doloroso. Non è Olsen, di ritorno dalla guerra, il primo a entrare nella casa, ma Weston Jeffries; ossessionato da lei e dalla sua libertà, cerca di conquistarla. Non accettando il suo continuo rifiuto, si introduce nella sua abitazione e la stupra. Violandone l’individualità non solo dal punto di vista sessuale e penetrando nello spazio privato, Jeffries sospende il meccanismo narrativo dell’eroe di ritorno dalla frontiera.
È da questo momento che si genera una rottura nell’esistenza di Vivienne. Dopo lo stupro, non è possibile tornare alla vita precedente. Potrebbe andare via senza avvisare nessuno, tornare nella sua terra d’origine, ma sceglie invece di rimanere in Nevada. La protagonista ha conosciuto la violenza sulla quale l’America nasce, racchiusa nel personaggio di Jeffries che si ritiene “più americano” degli altri per diritto di nascita e di conseguenza autorizzato a sottomettere chi non è in linea con la sua visione del paese. Non vuole scappare perché è in quelle terre che ha scommesso sulla costruzione di un suo nuovo spazio vitale seguendo la promessa di un amore puro. È quello il mondo che ormai le appartiene e alla quale non vuole rinunciare, a costo di compiere una battaglia solitaria.
In questo caso la figura femminile non necessita più di un uomo per scoprire la sua individualità e il suo destino, ma è in grado di autodeterminarsi, scegliere che lavoro svolgere, come crescere in autonomia il figlio, quali persone frequentare e quali battaglie combattere. È anzi Olsen che attraverso l’inaspettata relazione riesce a dare una direzione alla sua vita, della quale lo spettatore non conosce nulla e della quale non servono dettagli, perché acquisisce senso solo nel momento in cui in quella mattinata a San Francisco incontra la donna. L’amore che prova non riesce comunque a frenare la sua necessità di movimento e di sfida, ma ne rende necessario il ritorno e il riavvicinamento alla sua terra d’origine.
Le vicende dell’uomo sono portate in primo piano solo quando si troverà a dover fronteggiare la vita senza Vivienne: lascia la sua abitazione, che senza la compagna non riconosce più come casa, e torna al suo ruolo originario di avventuriero errante. La figura dell’eroe solitario non esiste più. Olsen non può più tornare dopo l’esperienza vissuta a essere un singolo. Nonostante la morte della compagna, prosegue il viaggio con il figlio che riconosce come suo nonostante sia nato da una violenza. Nel nuovo legame sentimentale, ancor più che nella vendetta verso Jeffries, trova la forza di andare via dalla sua città ritrovandosi nuovamente straniero nella terra che credeva l’avesse adottato, ma che svela invece la crepe della società in formazione.
La personalità di Vivienne, a sua volta, non avrebbe potuto trovare uno spazio accogliente e ospitale in quell’America in formazione basata sul valore supremo dell’individualismo, in cui per sopravvivere si cerca di soffocare l’altro. Un mondo che non fa altro che causarle un dolore costante, che si trasforma in quella malattia inarrestabile che l’avvelena e la costringe a letto, riducendo così lo spazio di movimento che lentamente si era conquistata. Lasciar scivolare via la vita, alla ricerca di pace, sembra l’unica soluzione: del resto, nel loro silenzioso riposo, i morti sono gli unici a non soffrire.
Riferimenti bibliografici
S.K. Sohakel, Women in Western Films: The Civilizer, the Saloon Singer, and Their Mothers and Sisters, Shooting Stars: Heroes and Heroines of Western Films, A. P. McDonald, Indianapolis, Indiana University Press, 1987.
The Dead Don’t Hurt. Regia: Viggo Mortensen; sceneggiatura: Viggo Mortensen; fotografia: Marcel Zyskind; montaggio: Peder Pedersen; interpreti: Vicky Krieps, Viggo Mortensen, Solly McLeod, Garret Dillahunt, W. Earl Brown, Danny Huston, Shane Graham, Rafel Plana; produzione: Talipot Studio, Recorded Picture Company, Perceval Pictures; distribuzione: Movies Inspired; origine:Canada, Messico, Danimarca; durata: 129′; anno: 2024.