Ognuno di noi ne ha in mente l’immagine: soprabiti sgargianti, copricapi in tinta, postura austera, mano sollevata nel tipico gesto di saluto, sorriso tirato. La Regina Elisabetta II è un’icona della monarchia, di tutte le monarchie, e in un mondo ad apparente vocazione repubblicana è lei l’incarnazione della sovranità. I suoi 65 anni di regno ne hanno sovrapposto definitivamente figura e ruolo, un eterno presente di cui si sono perse le origini e non si intravedono possibili evoluzioni. Rigida e conservatrice, così si presenta: tanto da arrivare a rimproverare durante un’occasione ufficiale del 2009 perfino un presidente del consiglio straniero, quello italiano, per un comportamento a suo avviso poco consono al contesto. Un confronto polemico tra il vecchio e il nuovo, seppur separati da soli dieci anni di differenza; ed è facile, di primo acchito, provare una simpatia spontanea per chi da un momento all’altro potrebbe gridare al re la sua nudità e infrangere schemi vetusti e affettazioni obsolescenti.
Eppure, dietro la reprimenda di quella che è diventata la sovrana più longeva della storia inglese si cela molto di più di un semplice scontro tra altezzosità regale e inadeguatezza da parvenu: perché è nel rispetto rigido del protocollo che il potere trova la sua prima forma di sopravvivenza. Ecco spiegato il rimbrotto di Her Majesty, ben oltre le questioni di etichetta: mai offuscare la superficie trasparente della rappresentazione normale del sovrano, soprattutto di fronte agli occhi indiscreti di testimoni e telecamere. Un’attitudine che prevede una lunga esperienza, dettata dalla conoscenza degli antecedenti e dall’introiezione delle norme di condotta e dei dispositivi disciplinanti che danno forma al soggetto, anche e soprattutto regale.
È questa presa di coscienza da parte di una giovane Elisabetta lo spazio attraversato da The Crown. Al centro della serie prodotta da Netflix – oltre la patina luccicante dell’accuratezza della ricostruzione storica, delle vicende avvincenti e dei retroscena svelati – si staglia anzitutto il nodo estetico-politico della rappresentazione efficace in quanto “effetto di potere”, per dirla con Louis Marin. Un racconto di formazione che descrive classicamente il passaggio da un’infanzia a un’età adulta, spostando però il campo d’applicazione dall’esperienza sensibile a quella governativa. Una regina, quella ritratta, spesso spiazzante, giovane, affabile e a tratti spensierata, che incrina a più riprese quell’idea figurativa cristallizzata – il cliché elisabettiano – che in ultimo troverà sì realizzazione, ma a partire da premesse molto distanti.
L’interazione tra il biopic come genere e il politico come orizzonte di senso costruisce un grande terreno di rilancio per l’audiovisivo contemporaneo nella sua capacità di diagnosi delle coordinate culturali del presente. E tuttavia, rispetto ad altri esempi che affollano grandi e piccoli schermi, risulta affascinante l’eccedenza teorica del corpo e della vicenda di Elisabetta II, vera e propria superficie riflettente dell’interazione mutevole tra visibilità, tecnologie e forme di governo. Un personaggio oggetto di numerose rappresentazioni che attiva e rinnova plessi analitici che hanno segnato la riflessione filosofica contemporanea. Ma The Crown oltrepassa The Queen: e non tanto nei termini di un confronto con il film di Stephen Frears del 2006, che pure trattava della necessità di ricostruire una rappresentazione adeguata della famiglia reale quando un doppio attacco sul piano simbolico (l’elezione di Tony Blair e la morte di Lady D) ne sembrava indicare l’obsolescenza, quanto piuttosto in relazione alla celebre teoria del doppio corpo del re proposta da Kantorowicz. È questo il centro propulsore del racconto: la corona come agente trasformatore permanente del soggetto che ne è investito e al contempo “burden”, onere e fardello, termine che ricorre ampiamente nei dialoghi. Un dovere che non si può rifiutare in quanto di diretta assegnazione divina. “Avrei sperato di non vedere mai questa immagine”, mormora il futuro Re Giorgio VI, il padre di Elisabetta e Margaret, osservando nello specchio la propria testa coronata: perché nella corona il sovrano non trova soggettivazione senza assoggettamento.
Da qui il rancore verso Edoardo VIII, pensatosi anzitutto come re-soggetto attraverso l’amore per Wallis Simpson, e non come espressione di una sovranità che lo precede e lo sopravanza: un’abdicazione che porterà a morte prematura il fratello minore, schiacciato dal peso della corona, secondo l’opinione delle donne di casa Windsor. Ecco perché l’importanza di preservare i simboli – anche quando non sembrano in sintonia con i tempi, come enfatizzato dalla giovane Margaret in un istante di “supplenza regale” – che garantiscono continuità e assicurano l’identificazione dei sudditi. Ed ecco perché la necessità di rispettare un rigido protocollo codificato nei secoli, di cui la figura che vi sovrintende – il segretario privato del sovrano, personaggio cardine nell’intreccio – assume pieni poteri in relazione alla gestione della rappresentazione, come mostrato da Foucault analizzando la funzione del maresciallo Velazquez in Las Meninas.
Ma nella vicenda elisabettiana, il conflitto tra corpo politico e corpo fisico assume contorni nuovi perché il secondo è sin troppo esposto a contingenze storiche totalmente instabili. Elisabetta attraversa il cuore del Novecento (la prima stagione si concentra tra il ‘47 e il ‘56, ma tocca anche momenti dell’infanzia) e i suoi cambiamenti, dovendo commisurare il proprio doppio corpo a questo divenire. È nelle innovazioni tecnologiche, soprattutto nella comunicazione (i dettagli ricorrenti di cineprese, radio, televisioni…), che si trovano le spie di queste pressioni della storia. È qui, in prima istanza, che nascono i contrasti dettati dall’incontro anacronistico tra l’eternità immutabile della Corona e il tempo terreno di una Regina “simbolo di modernità, cambiamento e progresso”, come la definisce lo zio Edoardo, colui che più di tutti ha attraversato questa faglia cercando di sovvertirne i rapporti di forza.
Contrasti che non possono prescindere da una questione di genere, incarnata dalla relazione con due uomini molto diversi eppure fondamentali nelle vicende narrate: il principe consorte Filippo d’Edimburgo e il Primo ministro Winston Churchill. Il primo rappresenta l’eccedenza del corpo fisico, sul quale la modernità si mostra nella sua ambivalenza: perdita di prerogative maschili culturalmente codificate (tramandare il proprio cognome ai figli, dettare le regole all’interno della famiglia, esserne la parte produttiva), da un lato, sovversione di un protocollo troppo rigido che gli impedisce di costruirsi un’autonomia soggettuale, dall’altro. Due spinte antitetiche che si trovano riunite nel ruolo di sovrintendente all’incoronazione, cerimonia che, dovendo riflettere una moglie (davanti alla quale è costretto a inginocchiarsi) e un mondo moderni, viene trasmessa in diretta televisiva.
Il secondo incarna il logorio del corpo politico, ultima espressione di un passato glorioso ormai in declino, messo in discussione dal suo stesso partito che lo vorrebbe sostituire con un esponente più giovane e in salute. Una condizione senescente evidenziata dall’interazione con la nuova regina, verso la quale gioca un doppio ruolo paradossale di inferiorità – nel rango e nel fisico – e superiorità – nell’esperienza e nella conoscenza. Suddito e precettore insieme, renderà chiaro a Elisabetta il disegno complessivo della propria esistenza (che a lei appare ancora sprovvista di una completezza di senso) e il valore fondativo dei simboli, dei rituali e delle tradizioni per la legittimità del potere. Elemento connettore tra due epoche storiche divise dal trauma della Seconda Guerra Mondiale e della fine dell’Impero, Churchill assume sulla propria figura governamentale quella duplicità sovrana, testimoniando come le istituzioni parlamentari stesse siano intrise dall’aporia irrisolvibile tra identità e mutazione. Un’aporia che la regina accoglie in ultimo, dimostrando la capacità di tenere uniti la complessità del presente e il peso della tradizione nello spazio della propria (auto)rappresentazione, trovando il punto di mediazione tra i suoi due corpi e le immagini e le relazioni esclusive ad essi associati.
In The Crown, produzione seriale e racconto biografico trovano quell’incrocio virtuoso tra vita, storia e politica che solo le immagini riescono a restituire nella loro forma cangiante. Nella figura di Elisabetta si condensa così l’enigma del potere, l’equilibrio instabile e necessario tra identità e divenire. Un corpo sdoppiato che assurge a oggetto teorico, luogo di concrezione di una costellazione più ampia, riprodotta in forme omotetiche su scala inferiore. Una vicenda che dischiude questioni che ricadono al di fuori dei confini sovrani, per spingersi ai bordi dei parlamenti e delle repubbliche governamentali ogni volta che il vecchio e il nuovo entrano in rotta di collisione. Un manuale, infine, di raffinata strategia conservatrice, che ogni contro-tattica rivoluzionaria dovrebbe conoscere prima di muovere guerra all’istituzione che intende abbattere.
Riferimenti bibliografici
M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 2016.
E. H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 2012.
L. Marin, Le Portrait du roi, Minuit, Paris 1981.