“Volevo parlare del corpo”, dice il regista di The Book of Vision rispondendo a una domanda di Giona Nazzaro, subito dopo la proiezione del film all’inaugurazione della Settimana Internazionale della Critica alla settantasettessima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. In effetti il film ha avuto una lunghissima gestazione, ma è difficile immaginare un film che come questo colga con altrettanta precisione il punto dolente di questi mesi di pandemia e quarantena, il corpo con i suoi misteri e i suoi poteri. È sempre difficile, e forse sbagliato, provare a riassumere la trama di un film, perché si finisce subito per assimilarlo ad una storia, mentre un film, prima di tutto, è un’avventura visiva, qualcosa che si vede e che non che si legge.

Una precisazione che vale in particolare per questo film, ricchissimo di suggestioni e immagini memorabili (il direttore della fotografia è Jörg Widmer), sequenze annunciate ma poi lasciate all’immaginazione dello spettatore, come quella degli uomini neri nel lago di montagna, o quella delle radici in movimento di una antica quercia ripresa dall’alto. Tuttavia, e proprio seguendo le parole del regista, è necessario provare a collocare questa affermazione all’interno di una, almeno una, delle storie possibili di questo film.

Seguiamo i tre personaggi principali in due epoche diverse, nel pieno settecento di un bellissimo castello prussiano e nella biblioteca e nella clinica di un’università dei nostri giorni: il saggio e anziano medico Johan Anmuth alle soglie della modernità e il chirurgo Baruch Morgan oggi (Charles Dance), la giovane e appassionata nobile Elizabeth von Ouerbach a cui corrisponde nella contemporaneità la studiosa di storia della medicina Eva (Lotte Verbeek), un giovane e ambizioso medico senza nome nel passato e Stellan, ora collaboratore di Baruch, nel presente (Sverrir Gudnason). Il punto di snodo fra queste due ambientazioni apparentemente così distanti è proprio il corpo umano.

Il medico Johan Anmuth (è suo il Libro delle visioni studiato da Eva), che poi scopriremo anche innamoratissimo amante di Elizabeth von Ouerbach, crede in una medicina in cui il corpo non è solo un sacco che contiene organi e fluidi: cura i suoi pazienti in primo luogo ascoltando i loro discorsi e le loro paure, come se fosse allo stesso tempo uno scienziato e uno psicoanalista ante litteram. Una medicina antica, paziente, fallibile, che si affida prima ancora che alla tecnica alla capacità intrinseca del corpo di reagire al malanno. Il corpo, per Anmuth, è in connessione con la vita delle persone e dei luoghi, dei boschi e delle acque, dei sogni e degli incubi.

Tutta diversa l’idea del corpo del nuovo giovane medico che prende il suo posto, un’idea cartesiana e quantitativa, il corpo macchina che va riparato come si ripara un orologio rotto. In mezzo c’è il corpo della donna, quello di Elizabeth/Eva, oggetto dei discorsi maschili, tanto nel passato (il nuovo medico subentra al vecchio per seguire la sua terza gravidanza) che nel presente (Eva è incinta, e la gravidanza è a rischio per un grave problema cardiaco; una situazione che, le dice il medico Baruch Morgan, impone una scelta, deve abortire se non vuole rischiare di morire). La posta in gioco è appunto il corpo, silenzioso ma non muto, lento ma non passivo, singolare ma non individuale.

Che cos’è un corpo, allora? Nel film si scontrano due epoche e due visioni del mondo, quella che finisce con Galileo e Cartesio, il mondo animato e sensibile dell’anima mundi, e quello tecnologico e artificiale della scienza moderna, quella del corpo oggetto inerte di una medicina sempre più artificiale e disumana (è un robot dotato di molti bracci meccanici che opera Eva). È difficile, dicevamo, non vedere questo film senza pensare ai mesi che abbiamo appena vissuto, l’epidemia e la quarantena, gli scienziati che ci dicono che cosa dobbiamo fare, le loro parole come sentenze senz’appello, il silenzio di tutte le altre voci, a partire dalla scomparsa (per la prima volta nella storia umana, probabilmente), della religione e del sacro.

Se poi pensiamo a qual è stato, ed è tuttora, il rimedio principale al diffondersi dell’epidemia, il distanziamento sociale, ci rendiamo conto di come The Book of Vision colga il punto decisivo del nostro tempo, che ne è e che ne sarà del corpo. In effetti “distanziamento sociale” significa nient’altro che per un corpo umano il pericolo maggiore è rappresentato da un altro corpo umano. Il corpo, ossia la nostra stessa vita, è diventato il nemico della stessa vita. Ci si salva senza il corpo, o almeno isolando il corpo in una bolla sterile: ma sterile vuol dire, appunto, senza vita.

Non è un caso che questa battaglia abbia luogo sul corpo di una donna, Elizabeth von Ouerbach/Eva, perché è in un corpo di donna quello che (almeno per ora) nasce la nuova vita, e quindi è sul controllo di questo corpo (che poi questo controllo sia operato da maschi oppure da donne ovviamente non fa – dal punto di vista del corpo – nessuna differenza). Ma questa vita, proprio perché come ogni vita è prepotente e senza riguardi per nessuno, rappresenta ora la principale minaccia medica alla salute umana. È dentro questa antinomia che ci porta The Book of Vision, tra un’epoca in cui la vita era vitale perché infetta e incontrollabile, ed una in cui la vita, per salvare sé stessa, deve rinunciare al contatto con le altre vite. Hintermann non propone nessuna via d’uscita, perché noi stessi siamo quell’antinomia, tuttavia ci mostra che quella che si gioca intorno al corpo è una battaglia quotidiana, e che non c’è un modo semplice per combatterla. Il corpo è la posta in gioco di questa battaglia. E lo è anche dei suoi personaggi.

In effetti se c’è qualcosa di Terrence Malick (produttore esecutivo) in questo film, questo non è, come invece molti critici hanno osservato, nella rappresentazione della natura o nel carattere lirico di molte scene, piuttosto proprio nel modo di impostare il tema del corpo nel rapporto al mondo. Si sa che Malick comincia la sua formazione come filosofo, e che la tesi a cui stava lavorando prima di interrompere il suo percorso accademico ad Oxford era sul concetto di mondo in Kierkegaard, Heidegger, e Wittgenstein (Tucker, Kendall 2011, p. 5). Di quest’ultimo filosofo, in particolare, è il caso di occuparsi pensando alla poetica di Malick.

Se proviamo infatti a “vedere” il Tractatus di Wittgenstein come potrebbe fare un artista, ci troviamo la stessa contrapposizione che abbiamo seguito finora: da un lato un mondo puramente oggettivo, infatti “il mondo è tutto ciò che accade”, un mondo letteralmente disumano, indifferente e freddamente logico; dall’altro lato, però, il libro si chiude con un vero e proprio salto mistico oltre i confini fattuali del mondo, per provare a vederlo come “totalità delimitata”. Uno sguardo del genere è contemporaneamente dentro e fuori dal mondo: dentro, perché solo nel mondo può esserci vita; fuori, perché solo da una prospettiva esterna è possibile abbracciare la totalità del mondo. Wittgenstein chiama questa condizione “il mistico”, lo sguardo capace di vedere non come è fatto il mondo, bensì il fatto meraviglioso e senza spiegazione che il mondo semplicemente è. In questo senso il Tractatus è un libro di formazione, che guida il lettore oltre i limiti della propria limitata prospettiva personale verso la pienezza del mondo.

Se ora torniamo al film di Hintermann, il corpo che ci propone è il corpo che si forma alla fine di questo lento e faticoso percorso mistico, è un corpo malickiano. In effetti seguiamo i personaggi del film in un movimento che dura letteralmente secoli – è solo la nostra mancanza di immaginazione che ci obbliga a vedere il corpo circoscritto dentro un solo “involucro” carnale – per diventare corpi capaci di cogliere il mondo “come totalità delimitata”, cioè cogliere l’unità del mondo. Così vediamo dapprima Johan Anmuth nei panni di un medico sensibile ma completamente inattuale nel tempo della nascente medicina scientifica; lo ritroviamo sotto i panni del chirurgo Baruch Morgan, che ora conserva la saggezza di Anmuth ma possiede anche la competenza scientifica della modernità; lo stesso movimento per Stellan, che dapprima non è che un medico insensibile e arrivista mentre alla fine del film e attraverso l’amore per Eva (una donna che non capisce, ma che ama proprio per questa ragione), diventa capace di accettare l’incomprensibilità del mondo; lo vediamo infine in Elizabeth/Eva, una donna che subisce la vita dorata ma algida nel castello del marito senza riuscire a vivere pienamente il suo amore per Anmuth, e la ritroviamo alla fine capace di portare a termine la gravidanza senza abortire, nonostante la scienza le consigliasse di salvarsi la vita a spese del feto. La vita non tema la vita.

Tre storie di incarnazione, le potremmo definire, tre storie che hanno dovuto attraversare lacerazione e sofferenza per diventare corpi capaci di stare al mondo in modo unitario. E così The Book of Vision ci mostra che è sempre possibile diventare un corpo, ma che è faticoso e doloroso. Il dualismo fra spirito e materia non si risolve scegliendo il primo a spese della seconda, oppure con la scelta contraria. Il mondo è uno solo, e soltanto abitando la sua doppiezza possiamo essere infine un corpo. Ci voleva un film così, dopo la pandemia, un film pieno di vita e di meraviglia per la vita.

Riferimenti bibliografici
T.D. Tucker, S. Kendall, eds., Terrence Malick. Film and Philosophy, continuum, London 2011.
J. Batcho, Terrence Malick’s Unseeing Cinema. Memory, Time and Audibility, Palgrave Macmillan, London 2018.
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1995.

The Book of Vision. Regia: Carlo S. Hintermann; sceneggiatura: Carlo S. Hintermann, Marco Saura; fotografia: Jörg Widmer; montaggio: Piero Lassandro; musiche: Hanan Townshend, Federico Pascucci; costumi: Mariano Tufano; scenografia: David Crank; interpreti: Lotte Verbeek, Charles Dance, Sverrir Gudnason, Izol’da Djuchauk, Filippo Nigro, Rocco Gottlieb, Justin Korovkin; produzione: Citrullo International, Luminous Arts Productions, Entre Chien et Loup, Rai Cinema; origine: Italia, Regno Unito, Belgio; durata: 90′.

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