di FRANCESCA PELLEGRNO
The Bear di Christopher Storer.
La paura, risposta innata alla minaccia o alla sola percezione del dolore, condiziona in ogni momento pensieri, azioni ed emozioni. La possibilità di soffrire apre ad un’angoscia profonda che orienta scelte e comportamenti, e limita la libertà dell’individuo di scoprire, sperimentare, essere. Questo, in circostanze che prevedono un particolare carico di responsabilità e pressioni, può tradursi in un ostacolo e in un rischio maggiori, poiché arriva a colpire lo sviluppo delle risorse personali, il conseguimento degli obiettivi e, addirittura, incide sul riconoscimento di un proprio imprescindibile valore. La paura è, quindi, un elemento permanente dell’esperienza umana i cui esiti coincidono spesso, e soprattutto oggi, con forme di sofferenza ancor più gravi dei pericoli da cui protegge: l’ansia generalizzata e il dubbio, l’autosvalutazione e la perdita di fiducia, l’isolamento e la rinuncia, sino a patologie come la depressione e la dipendenza.
The Bear, la miniserie in otto episodi scritta da Christopher Storer e da poco approdata su Disney +, racconta modalità e conseguenze di tale condizionamento e, sin dall’incipit onirico della puntata pilota, presenta lo sgomento come mood esistenziale: la paura come habitus che definisce e mina il rapporto del soggetto con il mondo. “System” (1×1) si apre con l’incontro surreale del protagonista Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White) con un orso. Lungo il ponte deserto di una metropoli indistinta, l’uomo avanza terrorizzato in direzione della gabbia ringhiante che lo attende in fondo alla strada, e un’inquadratura plongée dichiara il senso di oppressione e la dinamica di potere in gioco. Quando la gabbia si apre rivelando la bestia, Carmy fa per darsela a gambe ma un repentino stacco di montaggio, seguito dal trillo assordante di un campanello, lo risveglia e catapulta, insieme allo spettatore, in una dimensione di nuovo reale, ossia nello spazio claustrofobico della cucina fatiscente di un ristorante. La vita prende così il sopravvento sul sogno, e il ritmo convulso generato dall’accozzaglia fastidiosamente magistrale di suoni e immagini, informa subito dello squilibrio e delle tensioni che la attraversano. Il dramedy di Storer fa del caos e della disarmonia le cifre stilistiche predominanti, riproducendo ed enfatizzando il “problema” emotivo di cui narra.
Carmy è un giovane chef dell’alta cucina che, in seguito alla tragica morte del fratello maggiore Michael, rientra a Chicago per risollevare l’attività di famiglia, una paninoteca italiana compromessa dalla cattiva gestione finanziaria e da un’organizzazione interna altrettanto insana. Tuttavia, la serie rinuncia ad una rievocazione esplicativa dell’antefatto e sceglie di non introdurre né il personaggio né gli eventi che lo coinvolgono qui e ora. La pila delle bollette e delle notifiche di pagamento che si accatastano freneticamente sulla scrivania, l’epitaffio funebre che gli capita tra le mani mentre al telefono promette di saldare presto i debiti, l’immagine ricorrente dell’orologio su cui sfrecciano i minuti, così come quelle della fiammata dei fornelli che si accendono o della carne che si moltiplica in padella, esprimono l’urgenza presente di ingranare e non perdere tempo. Tutto quello che di importante c’è da sapere in The Bear, e che è funzionale allo svolgimento e alla risoluzione della trama, è in realtà soltanto accennato. Che siano suggeriti da oggetti-feticcio, evocati dal rimbombo di voci lontane o da frame rapidissimi e criptici, oppure affidati a battute di dialogo urlate tra i membri (ugualmente “sconosciuti”) di uno staff acerbo e scoordinato, gli accadimenti pregressi restano lacunosi. La rappresentazione realistica della paura e del pericolo di un crollo definitivo richiede che i personaggi tralascino e sminuiscano i dettagli di ciò che è stato, da un lato perché non lo accettano, dall’altro perché il conflitto indotto da un trauma è comunque parte della vita che deve continuare. Il suicidio di Michael ha segnato il vissuto di Carmy, della sorella Sugar (Abby Elliott), del “cugino” Richie (Ebon Moss-Bachrach) e, in generale, impatta sulle sorti di tutti gli altri, ma renderlo quasi marginale è una necessità della storia. Il proposito che la sottende è quello di mostrare sì i risvolti dell’evento traumatico (rabbia, disagio, shock, dolore, vuoto), però anche di dire che il lutto non è mai sospensione del flusso dell’esistenza e che, al contrario, si affronta contemporaneamente ad essa.
Carmy eredita il compito di “mandare avanti la baracca”, di rieducare la brigata e di creare un sistema operativo nuovo e vincente. La probabilità di soccombere lo consuma, l’atteggiamento belligerante e diffidente della squadra complica le cose, l’impreparazione si scontra con la fretta e la carenza di un budget da investire nell’acquisto di materie prime e attrezzature, oltre che rallentare il perseguimento dello scopo, non lo fa apparire credibile. Nel corso delle puntate, supportato dalla talentuosa stagista Sydney (Ayo Edebiri) che a muso duro rivendica uno stipendio valevole dei suoi sforzi, lo chef dedica ogni energia alla reinvenzione del locale, puntando su un modello gerarchico ordinato ma non soppressivo in cui il singolo dipendente ha una mansione specifica, non interferisce con quelle altrui ed impara a dare e ricevere aiuto. Il dramma è dunque sempre lì – richiamato dai silenzi riflessivi di Carmy, dal «lasciati andare» di Michael che ritorna in fuoricampo, dall’incendio che nei sogni distrugge il ristorante nonché dall’orso che non vuole sparire – eppure ancora lì è la vita.
L’impegno che il protagonista dimostra nel progetto di riforma del “The Original Beef of Chicagoland” ispira, pian piano, il contributo dei collaboratori. Pertanto, le arringhe quotidiane declinano in una ri-scommessa collettiva e in una cooperazione fondata sull’ascolto e sulla fiducia. Il clima contaminato della vecchia cucina si stempera laddove «ognuno pensa alla sua postazione e tiene pulito il suo lato della strada». The Bear pullula di personaggi “irrisolti”, inermi (o, come nel caso di Richie, violenti) perché schiacciati dalla paura. Ma intravedere l’ombra lieve di un cambiamento possibile li incoraggia a reagire, a partecipare, a provare quanto e se sono capaci. A quel punto, la “C” ricevuta dall’ispettore sanitario può diventare, sul foglio affisso alla vetrata, la prima lettera di “C-army” (“C-armata”); se il gas viene a mancare, e la corrente salta, si preparano e distribuiscono panini sul marciapiede difronte; finché la ricetta delle ciambelle non potrà dirsi perfetta, si dorme per terra in laboratorio come ha pensato di fare Marcus (Lionel Boyce).
Storer scrive e sa scrivere della contraddizione tutta umana che, in circostanze avverse o “malate”, scinde l’individuo tra il rifiuto di vivere (quindi un passivo tirare avanti) e la brama inconscia di un riscatto che gli consenta di farlo (la pulsione opposta ad andare avanti). Carmy si relaziona al suicidio fraterno con distacco e perversa ironia. Alle prime riunioni degli alcolisti anonimi, cui partecipa perché tormentato dalla sorella, siede disinteressato in ultima fila. Il personaggio subisce, consenziente, la situazione che è conseguita alla morte di Michael e non si sforza di approfondire le ragioni di una dipendenza che non gli era mai stato concesso di conoscere. Persino la decisione di acquisire la gestione del ristorante piuttosto che metterlo in vendita non sembrerebbe motivata, inizialmente, dalla ricerca di una pacificazione con la tragedia né da un’affezione forte al luogo, bensì dall’esigenza codarda di mettersi al riparo dal bossing del suo superiore. D’altro canto, la dedizione e la fatica esercitate tra le pareti unte e anguste della cucina (esasperate dallo stile di regia e dal montaggio delirante) non fanno che riflettere, a sua insaputa, la cura indispensabile al sostegno e alla preservazione della vita (che domanda responsabilità alla stregua di un mestiere). La frenesia e il trambusto cui è sottoposto, non permettono a Carmy di rendersi conto, nel momento in cui avviene, del fondamentale passaggio dal tirare all’andare avanti, dal torpore che trascina alla coscienza che innesca il movimento.
Eppure, è proprio nel compiersi di questa transizione che si svela il significato di quel «lasciati andare» che insistente aleggia nella testa e nelle orecchie dello chef. “Braciole” (1×8), l’episodio conclusivo della serie, lo vede finalmente raccontarsi davanti a una platea di alcolisti e sviscerare, in un discorso accorato, il proprio fardello emozionale. Carmy parla del rapporto con Michael, della passione culinaria condivisa e ricorda, appunto, come l’esortazione ostinata del fratello a lasciarsi andare lo abbia accompagnato nella crescita e sempre spronato a vincere la paura e ad avere fiducia (in sé, nel suo talento, nelle occasioni). Ad ogni modo, negli anni, la personalità invidiabile del defunto – descritto come travolgente e in grado di entrare in sintonia con tutto e tutti in qualsiasi circostanza – ha portato Carmy a desiderare di divenire tra i due il migliore e a chiudersi, fino ad assopirsi, quando gli eventi e le esperienze sbagliate lo hanno invece posto nelle condizioni di dubitare del proprio valore. La morte di Michael ha quindi scavato una ferita nella ferita, accentuando in parte il senso di colpa (soltanto a posteriori e troppo tardi il protagonista viene a conoscenza dei suoi problemi), in parte il lento abbandono (la rabbia lo spinge a pensare di essersi meritato e guadagnato, non una parola, non un saluto, ma «solo il ristorante»).
Il finale di The Bear spiega che ad aggiustare e riaffermare la vita ci pensa la vita stessa, dotata di una potenza irrazionale che trascende qualsiasi tentativo dell’individuo di controllarla. La verità emerge, l’elaborazione tanto temuta del lutto è già accaduta, il senso perduto del monito di Michael si chiarisce ed impone nuovamente agli occhi di Carmy che, passando per l’inconsapevolezza e per l’oblio, si è rimesso in gioco, ha scommesso su qualcosa che avrebbe potuto risolversi in un fallimento e, in sintesi, è rimasto attaccato alla vita. La consegna del messaggio lasciatogli dal fratello, sigillato in una busta ritrovata per caso da Richie, scioglie l’intreccio e determina la concreta presa di coscienza di quanto è successo, internamente e contro la sua volontà, nel lasso di tempo speso a risollevare l’attività familiare. Michael mette per iscritto un «ti voglio bene», l’ennesimo «lasciati andare», la ricetta degli spaghetti al pomodoro per la “famiglia” in cui lo invita ad usare i San Marzano nei barattoli più piccoli che «hanno più sapore» (e che contengono il segreto per convincersi a rialzarsi in piedi e rinascere). Quel foglio di carta è la resa dei conti, ma arriva solo quando Carmy (e Richie, e di seguito il resto della brigata) sono pronti a non sprecarla: quando l’orso, vinta la paura, può trasformarsi nel simbolo (e nel nome su un’insegna) dell’accettazione di una nuova sfida.
C’è un dialogo, in una delle poche pause distensive della serie, che anticipa e segnala la forza con cui la vita, sul punto di finire, decide di non finire; l’irriverenza con cui si fa dono di un’altra possibilità. In “Sheridan” (1×5), Carmy raggiunge Marcus all’uscita sul retro del ristorante, e confessando di aver dato fuoco al locale in cui lavorava, subito dopo aver ricevuto un riconoscimento, gli dice: “Succede questa cosa strana per cui per un minuto tu guardi le fiamme e pensi «Se non faccio niente questo posto andrà a fuoco, e tutte le mie ansie bruceranno con lui»”. “E poi spegni il fuoco”, risponde l’amico. “E poi spegni il fuoco”, ripete Carmy. Ecco, in quel “e poi spegni il fuoco” c’è tutto. Il mistero di una fede che ci governa, scombussola e che, alla fine, miracolosamente ci salva. Una resistenza inscalfibile della quale l’epilogo di The Bear non potrebbe meglio restituire il rumore, quindi il peso.
The Bear. Ideatore: Christopher Storer; interpreti: Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri, Lionel Boyce, Liza Colón-Zayas, Abby Elliott, Joel McHale; produzione: FX Productions; distribuzione: FX on Hulu, Star (Disney+); origine: USA; anno: 2022.