Due pose teatrali, come tutte quelle di Sirk, inquadrate leggermente dall’alto e di traverso. Intorno a loro, la cornice di un’immagine sonora e impersonale: i rami intrecciati, il cinguettio felice degli uccelli, il rumore dell’acqua, l’arioso extradiegetico degli archi di Miklós Rózsa. Ernst guarda Elizabeth, mentre lei osserva un albero in fiore sulle rive del ruscello che attraversa la città inventata (e perciò genericamente indistinta) di Werden. Siamo in Germania durante i bombardamenti alleati della Seconda guerra mondiale. Ernst fa notare a Elizabeth che l’albero è fiorito prima del tempo grazie al calore di una bomba che gli è esplosa accanto. Metà è bruciata e l’altra metà è tornata a vivere. “Potessimo imitare quest’albero. Credere nella vita e continuare”, le dice in un orecchio. La fede nella vita di due giovani amanti in un mondo in macerie.

Il lavoro sulla sinestesia dei segni naturali e musicali di Sirk fissa il ritorno della realtà alla vita. Una profezia e un’allegoria dell’umano: la filiazione del fiore alla pianta è la tensione destinale, l’orizzonte perduto a cui tende un’umanità in guerra. In Tempo di vivere è anche una lieta anticipazione, quella dell’annuncio della nuova nascita che i due protagonisti daranno alla luce nel finale del film, prima che lui muoia tragicamente sul fronte russo. Ma è solo grazie allo sguardo di Elizabeth che la vita dell’albero cessa di essere un mero processo biologico e diventa un corpo politico. L’origine meccanica della vita è infatti ascritta all’effetto involontario della sua negazione, a un gesto distruttivo (l’esplosione della bomba) prodotto dalla peggiore delle condizioni umane possibili.

Grazie a Elizabeth, il ramo fiorito inverte l’ordine del mondo, riannoda il nesso tra il bene e il male, tra la disperazione e la speranza. Diviene un corpo sociale in cui il soggetto ritrova l’unica tensione in grado di superare la realtà abominevole che lo circonda. Quello di Elizabeth sul ramo è uno sguardo empatico, che riconosce nella fine la possibilità di un nuovo inizio, in cui le rovine del presente, che incombono in ogni altra immagine del film, sono reimmesse nella temporalità dialettica della Storia. Proprio come accade poco prima, quando in piedi accanto a Ernst, con gli occhi alzati al cielo, guarda la prima stella della sera che ha la stessa luce di un aereo nemico. Uno scarto invisibile tra l’essere e il non essere a cui il soggetto è in grado di dare corpo al di là di qualsiasi principio di realtà.

L’esplosione ridona vita all’albero perché il trauma è l’ordine evenemenziale di ogni possibile rigenerazione, la condizione ultima per la creazione di una nuova soggettività. Con il suo sguardo pacificato allora, ciò che per un momento Elizabeth vede impressa sul ramo fiorito è l’universalità stessa del mondo. Un’universalità che sopravanza l’esistenza singolare del personaggio e la fa sentire parte della totalità. Il tempo di vivere è un tempo dello sguardo, è un’azione sospesa che coglie il senso complessivo della realtà. In attesa che l’azione e il divenire del mondo possano finalmente riattivarsi.

Tempo di vivere. Regia: Douglas Sirk; soggetto: Erich Maria Remarque (romanzo); sceneggiatura: Orin Jannings; interpreti: John Gavin, Liselotte Pulver, Keenan Wynn, Klaus Kinski, Erich Maria Remarque; distribuzione: Universal; origine: USA; durata: 132′; anno: 1958.

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