Nonostante viviamo tempi in cui il sapere scientifico e tecnologico è capace di realizzare missioni interplanetarie, l’idea di spazio profondo è probabilmente ancora in grado di mettere in moto meccanismi antichi di stupore, e di paura, che ci interrogano profondamente sul rapporto tra uomo, natura e tecnica. Sono numerosissimi i film che negli ultimi due decenni hanno affrontato il mistero dello spazio spesso associandolo alla necessità di abbandonare una terra ormai morente o inabitabile per la vita umana. È il caso, ad esempio, famosissimo di Interstellar (Nolan, 2013): la quantità di azoto nell’aria sta aumentando, l’ossigeno sta diminuendo e le tempeste di polvere ricoprono il Midwest seccando il mais, unico cereale ancora coltivabile. Ma non tutto è perduto: un wormhole attraversabile, un tunnel nello spazio-tempo, appare vicino Saturno e potrebbe fornire una via per fuoriuscire dalla galassia verso altri e più ospitali pianeti. L’ingegnere aerospaziale Cooper e il suo equipaggio devono ripercorrere i voli di tre astronauti che un decennio prima erano stati inviati su pianeti ritenuti in grado di sostenere la vita umana.

Questa vicenda, però, ruota attorno a delle presenze (Loro) il cui scopo sarebbe quello di aiutare gli umani a fuggire da un pianeta ormai al collasso, attraverso il wormhole che loro stessi avevano creato e che permette l’esodo verso un’altra galassia. Non si tratta di presenze aliene, ma umani del futuro la cui evoluzione scientifica permetterebbe di accedere alla quinta dimensione, ossia, oltre il tempo. Ci ritroviamo, dunque, di fronte ad un conflitto tra un universo indifferente, mostrato dalle immagini sublimi della desolazione dei pianeti esplorati e del loro muto/freddo determinismo, e quella che Mark Fisher ha chiamato «provvidenza materiale»; vale a dire, un intervento trascendentale che non ha un carattere soprannaturale ma piuttosto umano-tecnologico.

La creazione del buco nero che permetterà di scoprire un nuovo pianeta abitabile, non è altro che una pentadimensione attraverso cui l’umanità del futuro è in grado di intervenire nel passato per garantire la propria sopravvivenza. Ma questa possibilità potrà essere realizzata solo grazie all’amore. Quello tra Cooper e la figlia Murph che permetterà ai due di comunicare ali di là del tempo e dello spazio e dunque di salvare l’umanità.

Il film di Nolan evoca un intreccio misterioso tra tecnologia e misticismo amoroso che sembra rendere al meglio quel sentimento di stupore e meraviglia innanzi all’intricato rapporto tra ciò che definiamo, a partire dai Greci, physis, ossia ciò che è naturale, e techne, ciò che è frutto di un artificio. Dissipare questo complesso nodo problematico, antico ma ancora attualissimo, è lo scopo di Technophysis (2022) volume di Andrea Le Moli che ripercorre alcuni tra i modelli storicamente più importanti del rapporto tra physis e techne proponendo una storia tecno-fisica in grado di riflettere sulle diverse concezioni del tempo, e dell’uomo.

È la vicenda mitologica di Aracne a ricordare che la tecnica non è qui concepita come una caratteristica specie-specifica umana. La techne rappresenta piuttosto una liberazione dalla propria condizionatezza, ma non si offre in tutte le sue parti, salvaguardando il proprio segreto più profondo. Quest’assunto mitologico della tecnica come elemento non peculiare dell’umano, alimenta l’idea di un fondamento del sapere tecnico come sapere latente da disvelare. L’artigiano d’altronde non mostra i segreti che compongono il suo artefatto; l’atto tecnico accade su un’altra scena e risponde a regole diverse rispetto a quelle immediatamente visibili e per questo spesso interpretate come mechane, “prodigio”.

L’omerico Inno a Ermes è in grado di mostrarci il processo che la techne compie per divenire conoscenza in grado di svelare l’arcano attraverso una figura a metà tra la divinità e l’umano. È infatti il semidio Ermes ad assumere su di sé la capacità di oltrepassare la stupita meraviglia causata dall’ignoranza, a favore di uno stupore che sia il motore della consapevolezza delle cause. Un nuovo rapporto che apparirà d’ora in avanti irreversibilmente acquisito nella cultura e nella stessa mitologia antica.

Questo processo di affrancamento della tecnica rispetto al suo fondamento divino non comporta però che tale sapienza sia innata, ma sarebbe il frutto di uno sforzo che si svolge nel tempo e in termini collettivi. L’insufficienza dell’individuo lo spinge naturalmente ad associarsi e a farlo attraverso la sua specifica propensione a stratificare conoscenze nel tempo attraverso sistemi sempre più complessi. Per Platone e Democrito tale arte è legata al logos, ovvero una tecnica in grado di mettere in connessione contenuti appartenenti ad ordini diversi e trasformarli in unità di senso su cui a loro volta è possibile costruire ulteriori significati.

La comprensione della natura come insieme regolato di vincoli accessibili, in contrapposizione ad una physis misteriosa e oscura, trova la sua compiuta espressione in Galileo. La trasparenza di queste leggi ne permette la comprensione aprendo alla modernità come il luogo in cui la natura si dà nella sua finitezza attraverso le sue trasformazioni nella realtà fenomenica. Il moderno però non è ancora in grado per i propri limiti tecnici e meccanici, oltre che matematici, di replicare le regole della natura.

Per distinguere una volte per tutte i prodigi miracolosi da dimostrazioni realmente in grado di replicare tali leggi sarà necessario attendere la potentia sperimentale di Bacone, la capacità cioè di elaborare i criteri epistemici che garantiscano dimostrazioni sensate. Per essere in grado di rispettare il tutto della natura ed accedere alla sua comprensione profonda è necessaria una conoscenza tecnica in grado di riprodurre le regole e i meccanismi della natura. Per Bacone questo nuovo approccio si regge su un nuovo modo di intendere il rapporto natura-tecnica a partire dalle nuove conoscenze delle arti meccaniche, configurando così una technophysis come tecnicità tutta soggetta ai vincoli interni della natura.

Sarà l’impostazione darwiniana ad offrire un’ulteriore spinta al rapporto tecnica e natura. Per Darwin infatti la natura stessa assume le sembianze di un laboratorio in cui essa si modifica alterando l’ambiente e dando così vita a modificazioni co-evolutive tra ambiente e specie. Il principio comune di questa dinamica risiederebbe in una particolare qualità plastica propria degli organismi che una volta replicata è in grado di produrre microscopiche variazioni che rendono ognuno leggermente diverso dall’altro.

Alla luce della teorie dell’evoluzione techne e physis assumono una relazione reciproca nuova che non riguarda solamente la capacità di rispondere alle sfide dell’ambiente attraverso artifici strumentali, ma l’abilità di modificare l’ambiente stesso e di conseguenza rispondere con sempre ulteriori innovazioni. Per questo motivo l’ambiente umano non è mai esclusivamente physis ma sempre anche techne. Nonostante Darwin concepisca la natura come profondamente percorsa dalla tecnicità – intesa come variazioni che agiscono meccanicamente e rispondendo esclusivamente alle regole di interazioni tra le sue parti – intende la tecnica come capacità che opera nella natura a partire dal suo essere una caratteristica specificatamente umana.

Sarà la paleoantropologia a concepire l’evoluzione tecnica non come il risultato di second’ordine di una precedente evoluzione intellettuale, ma un fatto del tutto fisico, che come tale partecipa in pari misura ad altri elementi naturali ad alimentare lo sviluppo della struttura organica dell’uomo. Secondo Leroi-Gourhan il punto decisivo nell’evoluzione biomeccanica umana è il bipedismo e il conseguente ottenimento di tratti fisici esclusivi agli ominidi.

Questo consolidamento delle meccaniche del corpo avviene come conseguenza dell’impossibilità di espandere ulteriormente la materia celebrale all’interno del cranio. L’effetto più immediato è il miglioramento del corredo neuronico che contemporaneamente è in grado di sviluppare tecnicità e capacità linguistiche, favorendo così un interazione tra le due abilità che si alimentano vicendevolmente. La radicalità di questa ipotesi risiede nel concepire il progresso tecnico, lo sviluppo celebrale e la capacità linguistica come elementi in coevoluzione: un’unita di technophysis irriducibile ai suoi componenti e che ci ha organizzato come uomini.

Concepito come un unico movimento formato da due termini, il rapporto tra techne e physis non richiede la sottomissione dell’uno all’altro, ma stabilisce un rapporto di reciprocità vitale in grado di offrirci tutti i tempi che la vita umana è in grado di intersecare, da quello dei microorganismi a quello dei movimenti astrali. È una riflessione importante quella che ci consegna il volume di Le Moli, una tecno-storia in cui, forse, non c’è comando né asservimento.

Riferimenti bibliografici
M. Fisher, The Weird and the Eerie, Minimum fax, Roma 2018.

Andrea Le Moli, Technophysys. Le tecniche della natura, Palermo University Press, Palermo 2022.

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