Anche la fantascienza è cinema del reale, se è fondata sul sapere astrofisico. Il tempo che intercorre fra l’edizione originale del libro The Science of Interstellar scritto da Kip Thorne (accreditato nei titoli di testa del film di Christopher Nolan come produttore esecutivo) e la traduzione italiana uscita di recente, è quello che comprende il premio Nobel per la fisica assegnato nel 2017 allo scienziato californiano per la scoperta delle onde gravitazionali. «La straordinaria scoperta più inutile del millennio? A parte il fatto che è nata una nuova astronomia basata sulle onde gravitazionali invece che sulla luce, sembrerebbe di sì» (Amendola 2018, p. 148).
Ed eccoci a La scienza di Interstellar, che nell’edizione italiana è diventato il sottotitolo. La prima parte del volume è dedicata alla genesi del film, ed è molto interessante per tutti quelli che vogliono interrogarsi sulla politica degli autori nel sistema hollywoodiano: qui i registi passano (in principio era Spielberg…), gli ideatori restano. Kip Thorne attribuisce il big bang alla sua amica produttrice Lynda Obst, conosciuta nel 1980 per intercessione di Carl Sagan (lo scienziato autore del romanzo Contact, diventato nel 1997 un film prodotto da Obst e interpretato da Matthew McConaughey) e che un quarto di secolo dopo – avendo alle spalle successi come Flashdance e La leggenda del re pescatore (le sue esperienze nello showbiz sono raccontate nell’autobiografia Sleepless in Hollywood) – gli prospetta un film di fantascienza riguardante i wormholes, un concetto di Einstein (ma il termine è di John A. Wheeler) che Thorne spiega nel suo best seller Buchi neri e salti temporali. Nel 2006 Lynda e Kip incontrano Steven Spielberg, che è rimasto favorevolmente colpito dalle loro otto pagine di treatment:
Durante l’incontro, suggerii a Steven e Lynda due linee guida da seguire: nulla, in "Interstellar", avrebbe dovuto violare le leggi consolidate della fisica o le conoscenze già acquisite sull’universo; e le congetture, spesso ardite, riguardo le leggi fisiche e gli aspetti dell’universo che ancora non conosciamo bene avrebbero dovuto scaturire dalla scienza, da idee che almeno qualche scienziato “rispettabile” considerava come possibili (Thorne 2018, p. 16).
Nel 2007 viene coinvolto come sceneggiatore Jonathan Nolan, che per Thorne è quello di The Prestige (2006) e Il cavaliere oscuro (2008)ma per noi piuttosto quello di Memento (esordio suo ma anche di suo fratello Christopher); a furia di discussioni al ristorante del Caltech (California Institute of Technology, dove Thorne è titolare della cattedra Feynman di fisica teorica), lo scienziato e il narratore si spingono «appena oltre i limiti delle nostre attuali conoscenze» (ivi, p. 18) e arrivano all’ipotesi di utilizzare le anomalie gravitazionali come soluzione che permette all’umanità di abbandonare il pianeta Terra.
Quando Spielberg non riesce a mettersi d’accordo con la Paramount, subentra Christopher Nolan – «il più grande regista della sua generazione» (ivi, p. 14) – e per Thorne è come passare dalla padella alla brace: il nuovo reggitore (che peraltro condivide la passione per il classico di Edwin Abbott Flatlandia) ha le sue idee anche scientifiche, e pone questioni che al fisico tocca risolvere con congetture ad hoc (nei confini dello scientificamente possibile): «Chris ha portato nel film diverse sue idee importanti, idee che i miei colleghi fisici tenderanno ad attribuirmi e davanti alle quali io stesso, nel momento in cui le ho viste, mi sono chiesto: “Ma perché non ci ho pensato io?”» (ivi, p. 24).
Siccome è dai tempi di Kubrick che gli effetti speciali devono fare i conti con la cultura visuale della scienza contemporanea e anche con la visualizzazione di equazioni matematiche, il professor Kip Thorne (contraltare del professor Brand impersonato da Michael Caine) viene chiamato a collaborare con la Double Negative (l’azienda di computer graphics già responsabile di Inception), la cui interfaccia scientifica è Oliver James, un laureato in fisica atomica e ottica che conosce i dettagli tecnici della relatività speciale di Einstein. Così, finisce che Thorne manda immagini in bassa risoluzione e se le vede restituire in clip Imax con dettagli inattesi: «Per me, quelle clip erano come dati sperimentali: mi rivelavano cose che non avrei mai potuto scoprire da solo, senza il ricorso a tali simulazioni» (ivi, p. 138).
Insomma, non solo «Interstellar è stato il primo film di Hollywood a rappresentare un buco nero in modo corretto, come gli uomini dovrebbero di fatto vederlo» (ivi, p. 87) nonché quello in cui «le immagini catturano lo spirito e gran parte della sensazione di un vero viaggio in un wormhole» (ivi, p. 220), ma anche la prima esperienza produttiva in cui uno scienziato accetta le soluzioni narrative e visive dell’artista, tentando di interpretarle (sic!) e giustificarle ex post.
In quanto arte dotata di una storia cioè di una memoria (da automa spirituale) ovvero una tradizione, il cinema si spiega col cinema, non solo con la realtà. Un film di fantascienza come Interstellar non può non rimandare ai classici del genere, da Contact di Zemeckis (il rapporto padre/figlia, l’attore Matthew McConaughey) giù giù fino a La Jetée di Marker (il protagonista che viaggia nel tempo e finisce col vedere sé stesso in un fenomeno di bilocazione) passando per 2001: Odissea nello spazio, di cui si ripropone il nostos finale (l’astronauta nell’appartamento) con la scena di Cooper nel “tesseratto” completamente inventata da Christopher Nolan, verosimilmente digiuno di Deleuze (che dal cono di Bergson mutua l’idea delle “falde di passato”) ma forse avendo visto il film The Tesseract diretto da Oxide Pang Chun nel 2003.
Il cinema di Nolan è sempre stato ossessionato dai paradossi spaziotemporali: Memento è una sorta di viaggio all’indietro nel tempo a cui viene obbligato lo spettatore, costretto a ricordare gli effetti per poter ricostruire le cause; Inception teorizza sfasature temporali fra il mondo dei sogni e il mondo della veglia simili al paradosso di Einstein sul gemello astronauta; ma anche il montaggio “relativistico” di Dunkirk sembra riproporre la questione del rapporto tra durata, velocità e gravità (della situazione) con la sfasatura tra il vissuto dei soldati a terra e il vissuto degli aviatori in aria. Questo non significa che si sta dando soluzione narrativa a problemi scientifici, ma piuttosto che la complessificazione del film contemporaneo è solidale con la complessità inimmaginabile dell’universo post-einsteiniano. Quando la realtà non è come ci appare (titolo di Carlo Rovelli), l’astrofisica è un po’ fiction, il cinema è un po’ scienza dura.
Riferimenti bibliografici
L. Amendola, L’altra faccia dell’universo, il Mulino, Bologna 2018.
K. Thorne, Viaggiare nello spaziotempo, Bompiani, Milano 2018.