Tao 48 (2022) è il primo libro di testi brevi pubblicato da Franco Cordelli, il quale in una nota finale precisa che non si tratta né di novelle né di racconti. Del resto la scrittura di Cordelli, anche nei suoi “romanzi”, è da sempre una scrittura denarrativa che scaturisce da un io filosofico-esistenziale mescolando con sofisticata sapienza il dato biografico con quello di finzione. E nel caso di questo libro tanto il titolo quanto i nomi dei quartieri o vie di Roma con cui sono contrassegnati i 32 capitoli non sono una ricognizione topologica correlata all’autobiografia dell’autore, almeno nell’accezione comune di racconto vero della propria esistenza. Piuttosto quella che si dipana è una disquisizione in forma vagamente narrativa dell’irrealtà e della realtà dell’esistenza, delle persone, dei luoghi, dei nomi, delle parole che formano la vita. I luoghi sono i punti fermi, per così dire geografici, per rivelarsi poi veramente reali come ad esempio nello sguardo del bambino narratore di Savoia che si pone e pone alla madre domande e arrovellate argomentazioni. «Trentatré è un punto fisso?/ Che significa punto fisso?/Io ho otto anni. Papà quanti ne ha?/Ne ha trentasette/Allora?/Però è un punto fisso; io lo so».
Non si tratta di gusto per la trasfigurazione, ma di un voler riparametrare la città, l’angolo visuale tra i corpi degli amanti, la rinuncia a qualsiasi angolazione per non soffrire e vedere così l’universo come in Regina Elena, e quindi un procedere secondo la ragion critica. Così come in Forte Preneste, la foto del quartiere romano è il motivo ispiratore da cui si erige la cattedrale teorico-critica di Cordelli per ragionare sulla coincidenza fra l’infanzia e la liberazione dall’infanzia, sull’origine che non viene mai meno, sul tempo.
Di fronte alla realtà metropolitana che pure è al centro del volume, Cordelli da un lato vi si avvicina con umana adesione, con uno slancio curioso verso le cose fatte dagli umani, ma poi si ritrae come in Tiburtina, dove l’oggetto d’analisi si rivela, passato sotto le maglie del furore analitico, essere un luogo di civiltà, ma anche di inciviltà. E dunque verso cui provare una sorta di insofferenza, quasi fastidio come se, forse, l’acrobatica capacità di dettaglio, l’analisi acuta e distesa, non solo disvelassero ciò che effettivamente si ha di fronte, ma pure un sentimento di aspra delusione verso un procedere umano incomprensibile. Un sentimento simile a quello che il narratore prova rispetto all’amore per una donna, a proposito di cui ad esempio scrive: «Ogni volta che una storia finiva crollava un sistema ideologico, uno stile di vita».
Emilia, Miranda, Elena, Costanza sono alcune delle figure femminili che si succedono nel libro e che a volte si intersecano, venendo accostate come paradigmi o teoremi diversi eppure entrambi validi di pensiero. Se Una sostanza sottile (2016) era un romanzo strutturato perlopiù su un dialogo fra l’autore e la figlia (o forse una giovane amante), qui Cordelli propone uno scenario diverso. La relazione fallimentare e quindi viva con le figure femminili è in una ricerca in esse del sublime piacere di contraddizione e sostegno, di assoluto, di appagamento totale non sapendo o sapendo che poi è il critico come scrittore a creare il campo da gioco, pure quando sembrerebbe l’opposto – persino quando egli apprende dalle donne, le esplora, ne decifra i segni, quindi le ama ed è riamato.
E questo perché Roma, come del resto la figura femminile, incarna un’operazione mentale ed emotiva di colui che le guarda sotto la lente dell’unico amore dell’autore-narratore, ovvero quello per la letteratura. Così i sintagmi di Noam Chomsky (la serva amorosa, la moglie saggia, la donna di garbo) riportati in Gramsci “preparano” l’incontro con la donna, come Carlo Goldoni, Ennio Flaiano, Adolfo Bioy Casares, per citare solo alcuni dei vari scrittori e filosofi e cineasti che appaiono nel libro, intervengono a sostegno interpretativo del reale e del mondo fuori di loro. Anzi, sono solo l’unico credo, l’unico valido aggancio alla vita o motivo di esaltazione.
La carica interpretativa, la disamina analitica, che le figure femminili dischiudono nell’autore si rovesciano sempre nella contemplazione dell’inconsapevolezza che l’essere umano ha di sé. Miranda, il cui mestiere è quello di maneggiare le parole «come uno scavatore accecato dal bianco maneggia le pietre», è come le altre un affascinante oggetto d’amore, ma che si svilisce, sprofonda per certe idiosincrasie che preludono a un limite, per un approssimarsi inesorabile alla fine di un amore che, come scrive l’autore, muore rispetto alla gentilezza la quale si può programmare. «Lui non scriveva per alcun altro motivo che quello, per indicare quali cose tratteneva e quali no tra quelle che erano entrate dentro di lui, che gli erano state donate, per alleggerirsi di un peso, perché fosse possibile camminare, e alla fine uscire di lì».
Forse la chiave per comprendere la complessità concettuale e testuale di un volume come Tao 48 è pure nel leggere un luogo, come Villa Betania, come luogo giusto e ingannevole se poi il luogo vero e quindi non visto è il teatro. L’incontro con il corpo-topos dell’attrice Edda Valente è poi, a sua volta, una metafora per interrogarsi, partendo dalla freccia di Zenone, sull’illusione di sapere, sull’incapacità di vedere dove cade la freccia, ovvero in buio pianeta. Lo stesso dove forse è precipitata la suicida Caterina Montanaro il cui poetico ritratto della donna è un ragionamento sulla poesia come rifugio dalla paura verso il mondo, sprofondamento nella solitudine, ma pure rinuncia alla vita se, come Cordelli faceva pronunciare a Goethe nel suo testo teatrale Arancio (1994), «rinunciare a scrivere equivale ad abbandonare il terreno della lotta».
In quel testo teatrale del 1997 Cordelli sollevava il problema di dove collocarci, se in questo mondo o nell’altro. Forse non è un caso che l’ultimo tassello del libro si intitoli Marte, proiettando se stesso e il luogo, anche fosse sempre Roma, in un altro spazio, in un altro ordine, persino in una forma differente che somiglia a quella drammaturgica. Qui l’autore si rivela essere come appunto Franco Cordelli alias Pathfinder in un dialogo immaginario ed ironico con Ennio Flaiano, verso cui esprime la sua ammirazione. Un Cordelli che si autodefinisce critico e robot, mentre Flaiano un marziano, disquisiscono sul concetto di diversità in Un marziano a Roma e in Una e una notte dello scrittore pescarese, giungendo alla conclusione che tutti noi siamo marziani e che «il tempo passa e noi commettiamo degli errori, diventiamo alieni rispetto a ciò che eravamo o credevamo di essere».
Riferimenti Bibliografici
F. Cordelli, Una sostanza sottile, Einaudi, Torino 2016.
Id., Arancio, Edizioni Sottotraccia, Salerno 1994.
Franco Cordelli, Tao 48, La Nave di Teseo, Milano 2022.