Una maschera è effetto di un processo di generalizzazione e astrazione, che investe la vita sociale e la sua galleria di tipi. Questa è stata la maschera di Alberto Sordi. Una maschera che ha attraversato mezzo secolo di cinema e di vita italiani.

Ma quando la maschera ha grande successo si trasforma immediatamente in un mito. Che significa che il potere di sintesi che l’ha generata si converte in una potenza di generazione. Cioè nella capacità che il mito ha di dar vita non solo a comportamenti, gesti, stili di vita, ma anche a valori, saperi ed interpretazioni. E questo anche sottraendosi alla sua presenza effettiva e reale sulla scena. Archetipi e modelli classici sono capaci di dare senso all’esperienza nascondendosi, e i miti moderni sono capaci di risuonare senza che spesso ne vediamo la matrice.

La risonanza del mito di Alberto Sordi, che investe anche l’oggi, è al centro di uno spettacolo originale, coraggioso, divertente, con momenti di geniale invenzione, Tanti Sordi, con la regia di Elvira Frosini e Daniele Timpano, scritto insieme a Lorenzo Pavolini, visto nell’ambito di Roma Europa Festival alla Sala Umberto.

Sentiamo e vediamo risuonare Sordi nelle parole, nelle musiche, nei gesti dei quattro attori (ai due registi vanno aggiunti i bravi Barbara Chichiarelli e Marco Cavalcoli), che non fanno nulla per somigliare a Sordi, ma sono capaci di restituirne la potenza mitica, che permette di illuminare il passato e il presente dell’Italia. E che arriva anche ad includere lo spettacolo in corso e il destino degli attori in scena – come ripresa dell’avanspettacolo di Polvere di stelle – che lamentano i “tanti sòrdi” che guadagnerebbero se una volta per tutte decidessero di farlo, invece di continuare nella loro ricerca ostinata che li porta ad eludere il grande pubblico. Perché oggi non è “come ad Hollywood” dove i grandi attori venivano scoperti anche nei teatri off per poi portarli al successo, ora è esattamente l’opposto – dicono sulla scena –, ora al teatro si ha successo solo se si viene dalla televisione.

Ma il passaggio che manifesta grande originalità, è quando la figura di Sordi viene investita dal discorso intellettuale. Sia all’inizio quando viene citato Maurizio Grande, studioso e critico a cui si devono saggi decisivi sulla commedia all’italiana, sia quando appare sulla scena Goffredo Fofi sotto forma di un novello oracolo, segnato da parola vaticinante, che ne ha per tutti, “siamo pieni di stanze dei figli”, salvando solo Marcello, Nicchiarelli, Rohrwacher (“che è anche mia amica”), fratelli D’Innocenzo. E poi anche Pasolini che allontana e apostrofa Sordi come “piccolo borghese”, esempio di una Italia regressiva. Ma Sordi gli risponde che anche lui è un piccolo borghese. E non aveva torto.

Le maschere di una borghesia piccola piccola che, diventando mito, demistificano il tratto elitario e vuoto di chi detiene il discorso intellettuale. E così Remo ed Augusta de Le vacanze intelligenti, che in scena si chiamano con i nomi degli attori, Elvira e Daniele, ascoltano perplessi il silenzio al concerto della Biennale di Venezia, e chi gli siede accanto spiega loro che “il tacet è scritto nella partitura”.

Ma è soprattutto nel meraviglioso monologo finale in cui, con la postura di Augusta, sbracata su una sedia, Elvira allude a Marina Abramovic, in una istallazione in cui è in gioco l’“io significo” della pura stasi, l’enigmatica e divertente relazione tra l’io e le cose intorno, tutta la retorica della performatività contemporanea, distante anni luce dal senso comune piccolo borghese che ne mette in rilievo l’eccentricità astrusa.

Quel senso comune che però non viene risparmiato, quando riguarda un tratto atavico nel modo di pensare il rapporto tra uomini e donne. L’attrice recita il copione di Amore mio aiutami, quando nella famosa scena di Capocotta Sordi, picchiando Monica Vitti, ripete la battuta “Dillo ancora che lo ami”. E poi sulla scena si intrecciano la maschera di Casanova, che con tanto di parrucchino si guarda malinconicamente nello specchio, ed un privato in cui la donna, mai pensata come moglie, appare solo come un manichino bianco e prosperoso senza testa.

La forza creativa di Tanti Sordi risiede nell’uso della figura mitica del grande attore per rivelare le contraddizioni enormi, ma più ingombranti perché nascoste, di un intero Paese. Sospendendo ogni giudizio morale, evitando agiografie o banali riduttivi giudizi critici, lo spettacolo è capace di mettere in scena le risonanze e l’irraggiamento di una maschera fattasi mito che come una cartina di tornasole rivela tutta la complessità di forme di vita, individuali e sociali, di ieri e di oggi. Come quando, con un ulteriore gioco autoriflessivo, la voce di Sordi – generata dalla IA – si impone sulla scena commentando l’insignificanza di tutto ciò che sta vedendo.

Tanti Sordi – Polvere di Alberto. Un progetto di Frosini / Timpano e Lorenzo Pavolini; testo: Elvira Frosini, Daniele Timpano, Lorenzo Pavolini; regia: Elvira Frosini e Daniele Timpano; musiche e progetto sonoro: Ivan Talarico; interpreti: Marco Cavalcoli, Barbara Chichiarelli, Elvira Frosini, Daniele Timpano; produzione: Scarti – Centro di produzione teatrale di innovazione, Viola Produzioni/Sala Umberto, Romaeuropa Festival; durata: 90′; anno: 2024.


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