La sala espositiva situata nel piano sotterraneo del Museo Nazionale Thyssen-Bornemisza di Madrid appare profondamene trasformata dalla mostra temporanea Calabash Nebula di Tabita Rezaire, composta da tre istallazioni realizzate nel 2024 dall’artista di origini guianesi e danesi.

Al centro della stanza domina un’imponente architettura circolare in legno, ricoperta di palme e somigliante a un carbet nativo. Questa struttura, arredata con amache per accogliere i visitatori, è parte della videoinstallazione Des/astres e funge da tukusipan, spazio tradizionalmente destinato alle attività sociali e politiche del popolo indigeno wayana della Guyana francese. Lo schermo, posizionato sul tetto della costruzione, proietta i filmati in modo da creare un planetario che richiama il maluwana, un disco di legno e seta simbolo dell’intero cosmo.

La Guyana, un tempo colonia penale, è diventata dal 1964 una delle sedi del Centro Spaziale Europeo e, più recentemente, oggetto di contestazioni anticoloniali. Con la sua opera, Rezaire rivendica la pluralità di visioni attraverso cui le popolazioni indigene hanno sempre interpretato il cosmo e denuncia come l’esplorazione spaziale rappresenti una nuova forma di pensiero coloniale. La concezione dell’universo come terra nullius o ultima frontiera continua ad avere ripercussioni ecologiche e politiche, come dimostra l’attenzione dedicata ai programmi spaziali promossi da Musk e Trump durante le recenti elezioni americane. Il titolo Des/astres allude a questa duplice relazione con il cosmo: da una parte il desiderio (dal latino sidus, sideris, “stella”) di conquista e dominio di uno spazio altro, dall’altra il disastro (dal latino astrum), conseguenza dello sfruttamento ambientale e umano.

Il video si articola in quattro sezioni – Bosco, Acqua, Pietra e Cosmo – attraverso le quali l’artista esplora le connessioni tra essere umano, natura e universo. Nei filmati, le interviste ad attivisti, nativi, figure spirituali e ricercatori si intrecciano con immagini dell’Amazzonia e del cosmo, mettendo in discussione l’apparente neutralità del linguaggio scientifico relativo allo spazio. Questo linguaggio, come sottolinea l’artista, è intriso di miti occidentali come quello del pioniere in terra nullius e del Manifest Destiny. In maniera simile, le immagini dell’universo ottenute grazie all’innovazione tecnologica vengono presentate non in quanto illustrazioni neutrali e oggettive, ma come interpretazioni di dati che ricorrono a schemi di rappresentazione tratti dall’estetica dell’arte del Romanticismo e dal sublime kantiano (Kessler 2012).

In opposizione a questa visione, Rezaire adotta una prospettiva ispirata al pensiero indigeno (Viveiros de Castro 1998), basata su una concezione di realtà abitata da una molteplicità di soggetti, umani e non umani, che esercitano ciascuno il proprio sguardo unico sul mondo. La mostra si pone quindi come un tentativo di ricostruire un naturalismo molteplice, in cui l’unità della natura si intreccia con la diversità dei corpi, formando una rete di connessioni tra umani, animali, piante, pianeti e stelle.

Le conseguenze della deforestazione, dell’agricoltura industriale e dei processi di estrazione mineraria sono temi centrali anche nelle due opere dedicate a Yemoja, spirito dell’acqua nella religione Yoruba dell’Africa occidentale: Omo Elu e OMI: Yemoja Temple. Le installazioni impiegano tele tinte con indaco per rappresentare le diverse incarnazioni della divinità, tra cui madre, guaritrice, creatrice, figura acquatica, ballerina e protettrice (Omo Elu), e per costruire un tempio intrecciato (OMI: Yemoja Temple). Quest’ultimo è il risultato di una collaborazione tra l’artista, l’architetto Yussef Agbo-Ola e i biologi Alex Jordan e Anja Wegner del Max Planck Institute of Animal Behavior.

Per apprendere la tradizionale tecnica di tintura con indaco, l’artista ha trascorso un periodo in Nigeria, per poi dedicarsi alla realizzazione delle tele. Queste ultime evocano in forma astratta il lago Tanganica, luogo delle ricerche condotte nel corso degli anni da Jordan e Wegner. All’interno del tempio, due vasi contengono scaglie di cocco e miele, offerte simboliche alla divinità. Durante la cerimonia, i visitatori sono immersi in un soundscape che intreccia canti rituali e composizioni sonore ispirate a riflessioni artistiche e scientifiche sugli ecosistemi acquatici.

L’attività artistica di Tabita Rezaire è animata da una ricerca continua e da un impegno pedagogico che ha lo scopo di dare forma a prospettive alternative a quelle dominanti. Per descrivere il lavoro di Rezaire possiamo usare la definizione di «testimone modesta» di Rosi Braidotti, che dunque rifiuta ogni pretesa di oggettività e distanza critica, scegliendo invece una posizione di «osservazione attenta e non invasiva», con l’intenzione di «produrre sapere in maniera collaborativa, ispirandosi all’esperienza della marginalizzazione» (2023, p. 273). Omaggiando le popolazioni che l’hanno preceduta, e il cui sapere Rezaire unisce a quello scientifico e tecnologico, l’artista è in grado di reinterpretare il sacro attraverso l’arte, rispondendo alle urgenze contemporanee e alimentando, allo stesso tempo, il «desiderio di un altrove» (ivi, p. 269) che ci incoraggia a costruire dei mondi alternativi.

Riferimenti bibliografici
R. Braidotti, Il Postumano. Vol. 3. Femminismo, DeriveApprodi, Bologna 2023.
E. Kessler, Picturing the Cosmos: Hubble Space Telescope Images and the Astronomical Sublime, University of Minnesota Press, Minneapolis 2012.
E. Viveiros de Castro, Cosmological Deixis and Amerindian Perspectivism, in “The Journal of the Royal Anthropological Institute”, Vol. 4, No. 3, 1998.

Tabita Rezaire. Calabash Nebula, 8 ottobre 2024 –12 gennaio 2025, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid.

*Foto: © Jens Ziehe.

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