Lo spettatore che abbia in mente i segni individuanti, l’andatura, i ritmi di Suspiria (1977), probabilmente il film più grande e più compiuto di Argento, non impiega molto tempo, vedendo questo atteso remake, a comprendere che quella di Guadagnino è una riscrittura assai libera che poco assomiglia all’originale. Presentato in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, scritto da David Kajganich a partire dalla sceneggiatura originale di Argento e Nicolodi, diviso in sei atti e un epilogo, questo Suspiria di Guadagnino è un lavoro coraggioso, dilatato, inventivo e diseguale.
Ciò che lo spettatore nota presto è che Guadagnino sceglie di non giocare la partita della rifigurazione sullo stesso piano immaginativo e compositivo dell’opera matrice: mantiene l’ambientazione tedesca, ma la sposta dalla piccola Friburgo alla Berlino divisa del 1977, nei giorni, tra i più difficili della storia recente della Germania, del cosiddetto autunno tedesco; ambienta dunque il suo film nell’anno in cui quello argentiano è stato girato; conserva grosso modo intatti la sostanza narrativa dell’originale – la giovane danzatrice americana in una prestigiosa scuola di danza governata da streghe –, i suoi personaggi principali, le dinamiche portanti che vi si dispiegano, ma innesta nella struttura direttrici fabulatorie ulteriori non senza ambiziose aperture sulla storia della Germania post-bellica e apporta modifiche importanti (la più clamorosa delle quali compresa nella parte conclusiva del film, ma già attentamente preparata attraverso una del tutto nuova elaborazione del rapporto tra la protagonista e Madame Blanc).
Anche dal punto di vista dell’elaborazione propriamente formale la distanza di questo Suspiria da quello di Argento è notevolissima: mancano al remake del 2018 lo stile fiammeggiante e visionario, la conformazione barocca e debordante dello sguardo, il vertiginoso impianto figurativo che segnavano il film del regista romano; gli manca, soprattutto, l’uso esibito del colore, vero e proprio cardine plastico, drammaturgico, narrativo del film del ‘77, che in un desueto, sgargiante Technicolor, dovuto al lavoro del regista con Tovoli, dava al film il suo inconfondibile aspetto visuale; gli manca infine l’atmosfera asfittica, soffocante, la determinazione di un mondo narrativo chiuso, sigillato, così tipico dell’horror, che proprio la potenza formativa e trasformativa dei colori, oltre che delle scenografie, contribuiva in modo decisivo a costruire.
Guadagnino evita dunque ogni pur percorribile proposito di manierismo (rifare un classico attraverso le sue stesse articolazioni stilistiche, immaginative, formali: è quanto accade, ad esempio, facendo un salto triplo per genere, toni, atmosfere, nel recente, e notevole, Il ritorno di Mary Poppins di Rob Marshall, che sembra meno un sequel e più un rifacimento dell’originale) e conservando come detto il nucleo configurativo sostanziale del film, cerca altre forme (e altri sguardi cui fare riferimento: certo Fassbinder e certe atmosfere del Neuer Deutscher Film, per stessa ammissione del regista, con particolare riguardo per il celebre, collettivo Germania in autunno, 1978) per ripensarlo e metterlo in immagini.
Ecco allora un originale lavoro compositivo sulla lentezza, che è ciò che consegna al film la sua andatura distesa, che pure si spezza in scatti improvvisi, in strappi e accensioni, nei momenti di maggiore intensità drammatica ed emotiva, vale a dire nelle parti più propriamente legate al genere. In modo costante, le immagini colpiscono lo spettatore, lo inquietano, lo assalgono, attivando, come il genere vuole, una permanente elaborazione della sensazione immediata e propriamente gli fanno paura per il tramite di una multiplanare articolazione del suono, per lo più elaborato attraverso una molto classica combinazione con i movimenti della macchina da presa e in generale con uno sguardo che via via si accorda compiutamente con le libertà che la forma generica in cui opera gli consente.
Ma il film ha ad evidenza un pensiero dominante, che lavora in modi diversi e per il tramite di differenti articolazioni e questo pensiero – ancora una volta in modo per così dire classico – si appunta su un elemento cruciale del genere, vale a dire sul corpo. Lo si vede fin dalla prima sequenza che abbia un certo rilievo nel film, che è quella in cui Susie, poco dopo il suo arrivo nella scuola, fa la sua audizione per esservi ammessa: senza alcun accompagnamento musicale, vi si dà una prolungata performance danzata in cui i movimenti di Dakota Johnson risuonano nel vuoto come quelli di un guerriero e il suo respiro sibila, rimbomba e perfino mugghia dentro l’immagine.
Più avanti nel film, si comprende bene come se il corpo è un pensiero dominante o l’oggetto di tutti i principali pensieri o insomma il materiale primario del genere, qui quel pensiero appare compiutamente connesso, più di quanto non avvenisse nel film argentiano, a uno dei motivi di contenuto portanti del film, che è appunto la danza: in un’impressionante articolazione duale della scena (che per la sua durezza farà abbassare lo sguardo ai non cultori del genere) che lega i movimenti di Susie, nell’atto di provare la parte della protagonista nella spettacolo di Madame Blanc, a quelli di Olga, inizialmente prescelta per eseguirla, il corpo in azione dell’una, che ancora sembra aggredire più che eseguire, è ciò che distorce, frantuma, demolisce il corpo dell’altra, chiusa in un altro spazio e senza tregua scagliata, con suoni atroci, per ogni dove.
La centralità del corpo e la sua del tutto consapevole elaborazione compositiva è chiaramente esibita e perfino tematizzata dal film (il dialogo tra Susie e Madame Blanc durante l’esercitazione sui salti), quindi esemplarmente modellizzata nella sequenza dello spettacolo di danza aperto al pubblico (nella quale Guadagnino promuove una intensa esibizione del solo colore cui il film consegni un’elaborazione autenticamente compositiva, il rosso, anticipando la sua poderosa insorgenza nell’ampio, disturbante segmento posto in conclusione del testo). In questi passaggi, come in tutto il film, l’idea del corpo è insieme quella della sua distruzione ma anche quella della forza, dell’intensità, dell’energetica che distrugge.
Questo lavoro non potrebbe pienamente comporsi senza il corpo ieratico e filiforme di Tilda Swinton, presenza costante del cinema di Guadagnino, impressionante per la gestualità grave e concentrata, per l’intensità della mimica, per la severità espressiva con cui interpreta il ruolo della coreografa. Swinton come noto, grazie a un notevole lavoro dovuto al trucco, incarna inoltre il mostruoso personaggio di Helena Markos e, in una prova di autentico, seppure sempre misurato virtuosismo, anche l’anziano psicoanalista Josef Klemperer, che ha un ruolo di primo rilievo nel film.
Più in generale, tutti gli interpreti servono il testo con puntualità e rigore: così è anche per Jessica Harper, protagonista, come ognuno ricorderà, del primo Suspiria, che qui compare nel cameo, fantasmatico, che dà vita alla perduta Anke Meier, ma vanno almeno menzionate le prove della fassbinderiana (e per un tempo moglie del grande autore bavarese) Ingrid Caven e di Angela Winkler, indimenticata interprete, tra l’altro, de Il caso Katharina Blum (1975, Schlöndorff, von Trotta), Il tamburo di latta (1979, Schlöndorff), Il coltello in testa (1978, Hauff).
Come ogni altro remake, quello di Guadagnino è per costituzione diverso dal film che rifigura, ma ha l’ambizione di guardare all’opera matrice immaginando modelli formativi che proprio ne marchino la messa a distanza, e mescolando in un unico amalgama tratti di novità e materiali marcatamente tradizionali. E ha difetti e mancanze importanti che proprio rimontano a quella stessa ambizione: il confronto stilistico con il film di Argento, pure tenuto conto di tutti i deliberati distanziamenti, resta impari sotto ogni profilo, l’estensione è davvero troppo pronunciata e il riferimento alla storia tedesca, se da un lato (il terrorismo) ispessisce, per così dire dal fondo, un’atmosfera cupa, spaventosa e inquietante, dall’altro (la questione dello sterminio, pure meno elaborata) si compone in definitiva in modo solo problematico, e stridente (ho in mente, su tutto, l’ultimo dialogo di Susie con Klemperer), con la dimensione puramente irreale, fantastica dei temi, dei motivi, delle figure che innervano il film.