Il politicamente corretto, insieme alla cultura woke che ne è l’ultima evoluzione, rappresenta senza dubbio uno dei temi del nostro tempo, sia a livello del dibattito pubblico che delle prassi diffuse nel quotidiano. Ha ragione, dunque, Sandro Volpe nell’evidenziare le trappole in cui si può facilmente, o inevitabilmente, cadere se si aderisce a questa linea di pensiero in maniera acritica. Vorrei sgomberare il campo da un equivoco: dal punto di vista del confronto politico, è soprattutto la sinistra a essere danneggiata dall’abuso del politicamente corretto. La destra ha solo che da guadagnare dalla costruzione dell’ennesimo feticcio di nemico contro cui scagliarsi: ebrei, comunisti, stranieri, infine i “politicamente corretti” come ultima sintesi di tutte le tipologie di nemico (interno o esterno) della civiltà occidentale. Il fatto, però, che il politicamente corretto sia un facile bersaglio polemico per la destra non implica affatto che debba essere adottato dalla sinistra come proprio orizzonte ideologico. Il buonsenso suggerirebbe anzi di non dirigersi là dove l’avversario si aspetta che andiamo: Kutuzov insegna che l’unico modo di battere un nemico più forte nello scontro aperto è di farlo girare in tondo fino a logorarlo. Tuttavia, l’impressione è che la sinistra, un po’ dappertutto nel mondo, manchi oggi del giusto spirito agonistico per affrontare la battaglia delle idee. Non pratica forme di “guerriglia semiologica”, come voleva Eco; non prova a sovvertire il senso comune. E non può contare nemmeno su “strateghi” della cultura di massa à la Debord.
La chiave del problema sta, forse, proprio nell’aspetto appena messo in rilievo. La cultura di sinistra non funziona più come pensiero antagonista del senso comune, ma si presenta proprio come una forma razionalizzata del sentire comune. Non siamo più al buon selvaggio come esempio di istinto naturale, corrotto dalla falsa morale della ragione, ma all’essere razionale travestito da “nativo”. Resta poi da capire quanto ci sia di Rousseau e quanto di Defoe in questa “robinsonata”. Il punto è che il senso comune nel suo significato più autentico, di cui occorre tenere conto, è agli antipodi della fredda logica del pensiero razionale: esso rappresenta, per dirla con Pascal, le “ragioni del cuore” inaccessibili alla stessa ragione. Per dirla con il linguaggio meno alato di Kant, ci sono esperienze che non si lasciano giudicare in base a princìpi logici astratti, essendo valide solo come esibizioni esemplari di un sentire comune a tutta l’umanità. Non di una ragione comune a tutti gli esseri umani, ma proprio del sentire di tutti questi esseri, presi ciascuno con la propria testa e la propria sensibilità. Per Kant le opere d’arte e le esperienze estetiche in genere si lasciano giudicare solo in questa maniera concreta. Ma una lunga tradizione, che si ritrova già in Kant, passa per Schiller e arriva fino ad Arendt, sostiene che i giudizi estetici educano o addirittura attivano la facoltà di giudicare le questioni etiche e gli affari politici. In Italia lavorano a questa ipotesi filosofi di diversa provenienza, tanto politici quanto estetici: penso, tra gli altri, ad Alessandro Ferrara, Simona Forti, Pietro Montani e Stefano Velotti. La filosofa americana Susan Neiman critica la cultura woke perché riabiliterebbe una visione “tribalista” della politica a scapito dell’universalismo proprio della modernità. La prospettiva qui adottata propone una terza via, cercando di evitare sia il tribalismo delle piccole differenze sia l’universalismo indifferente ai caratteri specifici di un individuo, un gruppo o un’intera società.
Se assumiamo la prospettiva del senso comune, nell’accezione kantiana del termine, è possibile considerare il politicamente corretto in una luce diversa da quella del naturalismo razionalista che permea, ne siano coscienti o meno i suoi estensori, questa cultura. Ho in mente alcune delle sue diverse manifestazioni: dalle battaglie lessicali e grammaticali fino alle campagne più strettamente militanti, con le tutte le loro implicazioni giuridiche e perfino pedagogiche. Il punto di partenza ineludibile è la questione del consenso. La destra la risolve identificando il senso di una comunità con le sue radici culturali, in primis religiose, e con il suo passato. A questo modello il politicamente contrappone l’idea di una società ideale, naturalmente edificabile su fondamenta razionali, al cui centro c’è un individuo astratto, dotato di un numero indefinito di diritti: a partire da questi elementi di base è possibile costruire ogni possibile forma di vita associata. Se volessimo usare la metafora del disegno, il politicamente corretto immagina la società come un foglio bianco, in cui può darsi senza sovrapposizioni un numero infinito di figure, ciascuna di colore diverso. Le cose, dal punto di vista del senso comune, non stanno così: una volta segnato il foglio con il primo tratto di matita, il disegno comincia subito ad assumere una configurazione in divenire, ma già dotata di confini. Si può anzi dire che la possibilità del disegno è data dai suoi limiti. Non si tratta, pertanto, di temperare il razionalismo ingenuo del politicamente corretto con criteri di prudenza e di opportunità: occorre proprio cambiare paradigma.
L’idea kantiana di un sentire comune esibito da casi esemplari non fa riferimento a una comunità data, o i cui valori sono senz’altro da emendare, ma a una comunità possibile, ancora da progettare, tenendo però conto di come sono realmente fatti i suoi abitanti: creature terrene, più o meno ragionevoli, e non angeli privi di un corpo, di sentimenti ed emozioni. Un’idea più avanzata di giustizia politica si ottiene, in questa prospettiva, non dalla massimizzazione di un principio razionale, ma dalla configurazione più felice del rapporto tra ragione e sentimento, considerata dal punto di vista non del singolo individuo, ma di una pluralità indeterminata di individui. Per questo motivo, in un libro di prossima pubblicazione, ho provato a osservare la questione del politicamente corretto partendo dall’esperienza del narrare. Perché i racconti non sono tanto lo specchio di opinioni e sentimenti correnti, quanto l’indice della nostra capacità di incontrare l’altro e di costruire insieme un orizzonte di esperienza comune. Da questo punto di vista, l’introduzione di codici politicamente corretti nella produzione di storie – penso soprattutto al cinema e alle serie televisive – può perfino avere effetti controproducenti. Far figurare in posizioni di prestigio sociale personaggi che hanno caratteristiche etniche storicamente e geograficamente incompatibili con quel ruolo provoca una distorsione della nostra immagine del passato, confondendo la tolleranza e il rispetto nel presente con la coscienza della realtà storica. In poche parole, confonde lo spirito critico che fa da stimolo al cambiamento sociale. Censurare un linguaggio o comportamenti politicamente scorretti, nel caso in cui si tratti di mezzi usati per rappresentare una determinata situazione, e non per offendere o denigrare individui o gruppi, finisce per indurre un modo di pensare omologato. Soprattutto, scambia il moralismo per senso morale. E, più che in un circolo di liberi pensatori, o in una fumosa e “fumante” sezione di partito, sembra di essere nel salotto buono delle zie all’ora del tè.
Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Teoria del giudizio politico, il nuovo melangolo, Genova 2005.
D. Cecchi, L’esperienza dell’altro, Quodlibet, Macerata 2025.
U. Eco, L’era della comunicazione, La Nave di Teseo, Milano 2023.
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999.
S. Neiman, Left Is Not Woke, Polity Press, Cambridge 2023.