Nei mesi scorsi sulle pagine culturali del quotidiano “la Repubblica” si è svolto un dibattito dal titolo Diritto di parola. Incorniciato dagli interventi, un piccolo box in ogni articolo tracciava per così dire le regole del gioco: «Da una parte le istanze della cultura woke: definire in modo radicale un nuovo linguaggio che sia in grado di rappresentare ogni minoranza. Dall’altra l’atteggiamento reazionario che fa della lotta al politicamente corretto uno strumento politico». Per poi interrogarsi sulla possibilità di una terza via. Confesso che solo al terzo o quarto articolo mi sono accorto di quella parola: reazionario. E immediatamente mi è tornato in mente un articolo di qualche anno fa, nello stesso quotidiano, che si concludeva con questa sintesi: ogni attacco al politicamente corretto nasconde – più o meno consapevolmente – un pensiero di destra. Ma già allora ne dubitavo.
Il politicamente corretto nasce in America negli anni settanta ed è certamente portato avanti essenzialmente dalla sinistra: presto attraversa l’oceano, approda in Europa e, ovviamente, anche da noi in Italia. Si tratta soprattutto di una pulizia linguistica, l’eliminazione di un certo numero di termini offensivi o discriminatori nei confronti di determinate categorie. In fondo è il tentativo di suggerire un nuovo galateo, anche se non mancano voci fuori dal coro (in Italia, per esempio, Natalia Ginzburg). Robert Hughes, qualche anno dopo, parlerà di «Lourdes linguistica»: «L’idea che si cambi una situazione trovandole un nome nuovo e più gradevole deriva dalla vecchia abitudine americana all’eufemismo» (1994, p. 37). Era all’inizio – e per certi versi resterà a lungo – un fenomeno d’élite, fortemente caldeggiato dalla sinistra accademica. Hughes ne pronosticava una rapida sparizione, ma evidentemente, pur riconoscendone i tratti, ne sottovalutava quella matrice puritana fortemente presente nella cultura anglosassone e inversamente lontana dalla sensibilità europea.
Era solo un restyling linguistico? O c’era la fiducia nella virtù performativa del linguaggio, nell’idea che cambiare le parole servisse a cambiare la realtà? Se le parole avevano un potere discriminatorio, attaccare quelle parole – un insieme sempre più vasto – significava combattere i pregiudizi. Insomma, tutto iniziava con le migliori intenzioni.
Ma oggi? Da quella comprensibile presa di distanza qualcosa è andato storto. Le parole feriscono? Cambiamole, cancelliamole. Da qui una deriva collettiva di autoflagellazione che si è condensata in una parola: woke. Entrata nei vocabolari nel 2017 e presto saldamente radicata. Siete sensibili alle ingiustizie? Woke significa che siete dalla parte dei buoni. Ma stare «dalla parte dei buoni, il virtue signaling, è uno sfinimento quotidiano», come scrive Guia Soncini (2021, p. 26), in un libro delizioso e necessario, dove traduce – sarebbe più giusto dire ridefinisce – il termine woke con suscettibile, costruendo un repertorio di situazioni che descrivono un momento storico: l’era della suscettibilità, in cui la sua tutela, nella forma di un bullismo etico, sembra avere la meglio sulla libertà di parola (ivi, p. 25).
Più recentemente il grande merito dell’ultimo libro di Luca Ricolfi (Il follemente corretto, 2024) è quello di avere intercettato e classificato la mutazione del dibattito, descrivendo in profondità l’ideologia woke, versione estrema del politicamente corretto. Già da tempo quella che poteva essere una battaglia linguistica aveva guadagnato molto terreno sul versante delle discriminazioni. E, almeno negli Stati Uniti, una grande pulizia etnico-ideologica – la «polizia della parola» di cui parla Federico Rampini (2021, p. 43) – è intervenuta pesantemente nel mondo universitario – a partire dai criteri di ammissione – e in molte altre carriere. In Italia, per ovvie ragioni, questo aspetto è stato meno percepito. Tutt’altro discorso per le questioni di genere. Fino a qualche anno fa il dibattito non andava al di là delle cosiddette quote rosa, fortemente auspicate o magari semplicemente tollerate. Poi, il progressivo slittamento del dibattito sui diritti di tutte le minoranze e la progressiva prevalenza di queste tematiche sulle altre questioni sociali ha radicalizzato molti conflitti.
La sinistra ha certamente preso a cuore quei diritti: pensiamo alla Legge Zan, che estendeva la legge Mancino – che puniva le discriminazioni razziali, religiose, etniche – alle discriminazioni fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità (Ricolfi 2024, p. 93). La legge non è stata criticata solo da destra, ma anche da sinistra ed è stata bocciata al Senato, dove hanno pesato le forti perplessità legate alla limitazione della libertà di parola. Più semplicemente, però, ci possiamo chiedere – come fa Soncini – «perché la sinistra abbia scippato alla destra il primato del piglio censorio, e si compiaccia di far passare leggi per cui dire a qualcuno qualcosa di offensivo è un reato invece che, al massimo, maleducazione» (2021, pp. 25-26). Se poi accettiamo – in linea teorica – di condividerne il principio, non possiamo nasconderci che la lista dei comportamenti bullistici è allungabile a dismisura (Ricolfi 2024, p. 93).
Le battaglie sull’orientamento sessuale non sono certamente un patrimonio esclusivo della sinistra: in questo senso basta ricordare l’esempio francese per sgombrare il campo da equivoci. Poco alla volta però, tra i progressisti, le battaglie sull’inclusione hanno oscurato quelle sull’uguaglianza. E la protezione delle minoranze sessuali ha portato a un incremento progressivo dell’acronimo che si è allungato fino ad assomigliare a un IBAN sessuale: LGBTQIAPK+ (ivi, p. 162).
Qualcuno, comprensibilmente, ha pensato di scherzarci su o semplicemente di prendere le distanze da questa ansia tassonomica: Simone Lenzi, che oltre a essere uno scrittore e un musicista, è stato assessore alla Cultura a Livorno (sì, proprio la città del Vernacoliere), in una giunta di centrosinistra, è stato costretto alle dimissioni. «Sì può essere di sinistra e pensare che non esistano 22 generi sessuali?», si è chiesto tra l’altro, e a molti non è andata giù. L’accusa più pesante? Transfobia.
E siamo al nodo più importante e interessante – certo non per il grande pubblico – del dibattito: la questione dell’identità di genere. Anche perché su questo scoglio si è infranta la convergenza tra le diverse anime di uno stesso fronte, entrate in rotta di collisione (Ricolfi 2024, p. 206). Il genere è legato al sesso biologico o a come ci si percepisce? (Bruckner 2021, pp. 94-101). Molte legislazioni si sono spinte nella seconda direzione, ma non mancano – per esempio all’interno della cultura femminista – le voci di dissenso, ampiamente legittimate dai molti abusi provocati dal Self Id.
Tornando al dibattito di casa nostra, può essere interessante ripensare due casi che in tempi diversi hanno fatto discutere. Il primo risale a qualche anno fa: Vladimir Luxuria, parlamentare di Rifondazione Comunista, entra nei bagni delle donne e Elisabetta Gardini, parlamentare di Forza Italia, grida il suo imbarazzo. Seguono anche simpatici siparietti televisivi: Luxuria, con umorismo, fa notare alla collega che il Transatlantico «si chiamava così prima che ci fossi io». Ma precisa pure di avere evitato i bagni degli uomini «per non metterli in imbarazzo». Sinistra e destra – magari al di là degli stretti confini delle formazioni – difendono le posizioni. Eppure, al netto delle possibili provocazioni e della minore o maggiore empatia, resta una semplice domanda: perché dovrebbe essere scontata l’opzione gradita da Luxuria? Argomento controverso, come ben sanno gli americani (Soncini, p. 163), che ha ispirato la celebre locandina del film Transamerica (2005) di Duncan Tucker. Ma non sarà un po’ stupido schierarsi da uno dei due lati con l’implicito alibi del colore politico?
E veniamo al più recente e significativo caso Carini-Khelif alle ultime Olimpiadi. Al di là dei toni vittimistici della destra a favore della nostra pugile, e della difesa d’ufficio delle ragioni dell’avversaria da parte del fronte opposto, i commenti più equilibrati hanno descritto la grande confusione sulle regole internazionali per definire non tanto il sesso della pugile algerina, quanto i criteri di ammissione alle competizioni. Sintetizza Ricolfi: secondo la sinistra ideologica e la lobby LGBT+ l’inclusione è più importante dell’equità, secondo la destra ciò che conta è l’equità della gara (Ricolfi 2024, p. 94). Torna alla mente, sul piano della disabilità, il caso Pistorius e la discussione sull’opportunità di ammetterlo alle gare dei (cosiddetti) normodotati. Prima che per le sue note vicende processuali il protagonista si allontanasse dai riflettori sportivi, le caratteristiche delle sue protesi hanno provocato opposti pronunciamenti da parte delle autorità internazionali.
Spesso in nome dell’inclusività – altra sirena, altro grande equivoco da sfatare – ci si avvita in posizioni insostenibili. Refrattari al senso del ridicolo oggi in molti (e in modo massiccio nelle università) intasano le mail con i vari asterischi, schwa e altre amenità. È bastato il richiamo di Ambra Angiolini durante il Concertone del Primo Maggio – «tenetevi le vocali, dateci la parità» – per demolire in un attimo un altro mantra della sinistra. Sempre in nome dell’inclusività ci si avvia – e speriamo che non sia troppo tardi – a ingabbiare la creatività con l’ossequio a tutte le possibili minoranze. Come spesso avviene nel cinema – almeno in America, e certamente nello spirito dell’Academy – dove le trame vengono riscritte secondo parametri prestabiliti nel rispetto delle varianti etniche e sessuali (rivedere Il danno di Louis Malle dal romanzo di Josephine Hart, inizio anni Novanta, e la serie Ossessione su Netflix dello scorso anno per comprendere il meccanismo di riscrittura nel contesto britannico) o sfruttando a vario titolo le disabilità.
Torniamo al punto di partenza. L’affermazione in chi si riconosce nei valori della sinistra secondo cui andare contro il politicamente corretto è – più o meno consapevolmente – esprimere un pensiero di destra implica l’idea che, malgrado i suoi eccessi, il politicamente corretto vada comunque difeso. In molti, almeno in una sinistra liberale, si fa strada l’idea che questo sia un macroscopico equivoco e un formidabile assist alla destra. Rivendicare come valore della sinistra l’eufemismo ipocrita e lasciare alla destra il primato di un linguaggio franco e diretto è un suicidio etico e politico, come suggeriscono peraltro gli ultimi eventi elettorali. Invece di chiederci se essere contro il politicamente corretto è di destra faremmo meglio a ricordarci ogni giorno che siamo liberi di pensare al di là degli schieramenti e delle semplificazioni di comodo: riconoscendo – anche da sinistra – che il politicamente corretto, nella bella definizione di Emanuele Trevi, è una «muraglia cinese di idiozia».
Riferimenti bibliografici
P. Bruckner, Un colpevole quasi perfetto, Guanda, Milano 2021.
R. Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano 1994.
F. Rampini, Suicidio occidentale, Mondadori, Milano 2021.
L. Ricolfi, Il follemente corretto, La nave di Teseo, Milano 2024.
G. Soncini, L’era della suscettibilità, Marsilio, Venezia 2021.