
Quando Pasolini è stato ucciso, ero all’ultimo anno di Liceo. Mi ricordo bene la notizia, che avevo scoperto leggendo il giornale alla stazione di Chiasso, dove stavo per prendere il treno, e l’orrore che ne conseguiva. Ma fino a quel momento cosa sapevo di Pasolini? Avevo letto qualche scritto corsaro, sicuramente, e Ragazzi di vita (1955); avevo visto Accattone (1961), Il Vangelo secondo Matteo (1964) e Uccellacci e uccellini (1966). La figura complessa di Pasolini mi era nota però soprattutto da qualche accenno del mio insegnante di italiano, Giovanni Orelli, e da qualche lettura scolastica. Era infatti un’epoca nella quale il ’900, ancora fortemente in corso di svolgimento, godeva almeno virtualmente nella pratica didattica di un’attenzione forse più viva e più attenta ai nodi problematici e ideologici di quella attuale; tanto è vero che, accanto alla storica antologia generale della letteratura italiana di Mario Pazzaglia, si utilizzava Guida al Novecento (1986) di Salvatore Guglielmino. E lì appunto dovevo aver letto precocemente anche qualche testo poetico di Pasolini, e sicuramente Il pianto della scavatrice (1956), non saprei dire ora se integralmente o meno. Ma se, negli anni successivi, avrei letto e visto parecchio dell’intellettuale e del regista, il poeta Pasolini sarebbe rimasto ancora per parecchio tempo un po’ marginale nella mia formazione, e affidato in sostanza a quelle prime, parzialissime letture. Come mai? Prima di tutto per caso, per pigrizia, per disattenzione; ma anche, senza che allora io potessi saperlo o capirlo, perché quella poesia, e mi riferisco a quell’intenso ventennio creativo che va da La meglio gioventù (1954) agli ultimi anni di vita, apparteneva in un certo senso a una temperie culturale che non era la mia, e che faticavo a penetrare.
Non parlerò qui, per tante ragioni abbastanza ovvie, delle poesie friulane o comunque dialettali, che come a molti sembrano anche a me rappresentare uno dei vertici di Pasolini, e insieme il serbatoio originario delle visioni mitiche che informeranno poi tutta la sua poesia in lingua: il mito di Narciso, il mito di una purezza popolare quasi incontaminata e minacciata dalla macchia di petrolio della mercificazione neocapitalista, e infine il mito di una saldatura tra destino soggettivo e intellettuale e esperienza collettiva popolare, o più avanti sottoproletaria; tra poesia sofferta e duramente pagata, identità osteggiata da un lato e intensissima vita di borgata (originariamente, nell’esordio friulano, rappresentata da un mondo contadino in via di scomparsa), si potrebbe semplificare. Per me in effetti la poesia di Pasolini è stata soprattutto affidata al volume di Garzanti, Le poesie, apparso in quel tragico 1975, e acquistato non molto tempo dopo, ma letto davvero solo più tardi; e, dentro quel libro, al suo cuore forse maggiormente pulsante, che io credo di ravvisare ne Le ceneri di Gramsci (1957). Qualche anno più tardi, quando cercavo di orientarmi meglio in rapporto alla tradizione del ’900, devo aver annotato in un mio quadernetto una specie di “scorciatoia”, che ricordo ancora bene: «Pasolini: impura purissima passione. Caproni: purissima musica pura».
Si vede che stavo leggendo, in entrambi i casi nelle edizioni verdi di Garzanti, le opere di questi due autori; ma forse nell’accostamento questa volta c’era qualcosa di meno casuale, se nell’uno e nell’altro è possibile cogliere la presenza di forme chiuse e tradizionali, diversamente messe al lavoro, diversamente risolte nella concreta tessitura verbale. Lasciando da parte ora Caproni, mi colpisce, in quella giovanile annotazione, la parola passione, che davvero credo centrale in Pasolini (non solo per il suo titolo famosissimo Passione e ideologia, 1960); e basterebbe rileggere un epigramma pasoliniano, A Chiaromonte: «Non illuderti: la passione non ottiene mai perdono. / Non ti perdono neanch’io, che vivo di passione», in La religione del mio tempo (1961). La passione, nella sua vasta sfaccettatura semantica, tra patos, compassione e ascesa al Calvario, è in un certo senso il nucleo profondo forse di tutto Pasolini, ma certo del poeta, che in passione traduce l’esperienza erotica, politica, antropologica, e che nel termine stesso vede forse quello che altri avrebbero chiamato destino.
Ma insieme al sostantivo, i due aggettivi quasi ossimorici di quella vecchia scorciatoia suggeriscono ciò che mi chiama e ciò che mi respinge nella poesia di Pasolini: l’apparizione frequentissima, nell’ampia misura del testo poematico (ora in terzine, ora in distici, ora in lasse più ampie) di parole e immagini brucianti, di segmenti poetici memorabili e stupendi; ma insieme la sensazione altrettanto frequente di una sfocatura di quell’immagine, di quel verso, in un insieme organizzato, e forse troppo organizzato, troppo voluto e pensato, in cui l’intensità rischia di diluirsi. Naturalmente ci sono eccezioni, e la maggiore di esse, per quanto sia banale dirlo, è proprio Il pianto della scavatrice, che continuo a ritenere uno dei risultati sommi nel ’900 italiano. Potrei allegare una prova empirica: più di una volta ho sperimentato da insegnante, in una classe liceale o in un’aula universitaria, la lettura integrale di questa poesia, che richiede un certo tempo; ottenendo un’attenzione, una concentrazione e uno stupore ammirato che forse solo le letture dantesche sanno innescare. Più in generale, tuttavia, la sensazione di una impurità prevale e produce nella mia memoria una sorta di macchia meno nitida, meno memorabile; cosa del resto coscientemente perseguita da Pasolini, in un progetto espressivo che intende prendere le distanze da quel che resta della “lirica pura” (la «faccia di chi fa poesie» dell’epigramma A Luzi), sostituendole appunto la vastità di un percorso insieme poetico e ragionativo, con qua e là improvvise accensioni nell’uno e nell’altro campo (o, nei casi migliori e più alti, nei due campi splendidamente fusi).
Se ripercorro il mio vecchio volume Garzanti trovo qua e là sottolineature, originate appunto da simili accensioni: «Nel restare / dentro l’inferno con marmorea // volontà di capirlo, è da cercare / la salvezza. Una società / designata a perdersi è fatale / che si perda: una persona mai», leggo ad esempio nell’ottavo movimento di Picasso (1953); oppure, anche stringendo a singoli sintagmi, «morto disadorno», nel poemetto intitolato come la raccolta Le ceneri di Gramsci (e chissà se l’aggettivo non rimbalzi poi più avanti nei decenni fino a una poesia di Milo De Angelis, Ora c’è la disadorna, nei suoi Millimetri del 1983). O ancora, una violenta contrattura linguistica, come «senza / rondini, di cani urla la sera», in L’umile Italia (1954); e potrei continuare a lungo con esempi di questa natura, come affastellando piccole o grandi gemme che vanno estratte da un più ampio sfondo volutamente spurio. Gemme, aggiungerò ancora, in cui ogni tanto mi sembra di sentire molto forte l’eco di un poeta per molti aspetti solidale a Pasolini, come Umberto Saba: da lui diversissimo, certo, e tuttavia per non pochi aspetti fraterno.
Sarà probabilmente per questa strana, non facile dialettica tra luminosità del singolo passo e cinerino indistinto dello sfondo, che non molti anni fa ho riscoperto una poesia di Pasolini che avrei dovuto ben ricordare, e che invece avevo dimenticato. Stavo provando a scrivere a mia volta un poemetto, o qualcosa del genere, dedicato ad alcuni amici casertani, che mi avevano guidato nelle loro non facili vite e nel paesaggio terribile della “Terra dei fuochi”, che un tempo si chiamava “Terra di lavoro” (o, addirittura, “Campania felix”: un toponimo che oggi fa persino male, nell’evidenza del disastro). E, non so più bene come, guidato da un’intuizione o da un vaghissimo ricordo, ho riaperto ancora una volta Le poesie di Pasolini, incontrando con commozione, proprio sul finire de Le ceneri di Gramsci, le terzine de La terra di lavoro.
È un testo bellissimo, con quel suo attacco memorabile («Ormai è vicina la Terra di Lavoro, / qualche branco di bufale, qualche / mucchio di case tra piante di pomidoro») e alcuni straordinari picchi di intensità: «E dai campi, ormai violetti, // viene una luce che scopre anime, / non corpi, all’occhio che più crudo / della luce, ne scopre la fame»; in questi versi, il mito dell’“Età del pane” (che Pasolini contrapporrà, in un suo scritto corsaro in polemica con Calvino, all’“Età della merce”) perde, si potrebbe dire, parte della sua aura mitica, e viene ricondotto alle disperate condizioni materiali, all’abbandono, alla miseria «del vecchio meridione», rispetto al quale «anche la tua pietà […] è nemica». E proprio “nemica” è la parola che chiude, quasi atrocemente, insieme al poemetto, anche il libro che lo contiene. E tuttavia proprio la bellezza atroce e lancinante di questa poesia mi sembra riassumere tragicamente il senso di distanza che avverto oggi rispetto al mondo che Pasolini ha potuto conoscere e contraddittoriamente amare, un mondo oggi davvero scomparso e quasi inimmaginabile.
Pasolini era nato nel 1922, un anno dopo mio padre, che di Pasolini forse non ha mai letto una riga o un verso. Se oggi fossero vivi, Pasolini e mio padre avrebbero cent’anni o poco più: l’età di un vecchio che ho incontrato pochi giorni fa in una casa di riposo, dove mi era stato chiesto di andare a leggere poesie, e che, dopo avermi chiesto chi ero, ha dichiarato che non sarebbe rimasto ad ascoltarmi, perché le cose che potevo dire io lui le sapeva da cento anni. Aveva ragione; e insieme aveva torto; perché chi ha la mia età è nato nell’epoca in cui la “Terra dei fuochi” si è definitivamente sovrapposta alla “Terra di lavoro”, come l’età della merce a quella del pane, come l’asfalto al prato. È anche questa la distanza che avverto oggi rileggendo Pasolini; una distanza più antropologica che poetica o politica, che può non piacermi ma che temo ineludibile.
Riferimenti bibliografici
M. De Angelis, Millimetri, Il saggiatore, Milano 1983.
S. Guglielmino, Guida al Novecento, Principato editore, Milano 1986.
P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Id., Le poesie, Garzanti, Milano 1975.
Id., Le ceneri di Gramsci, in Id., Le poesie, op. cit.
Id., Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960.