Chi è nato un secolo fa, nel 1921, si è trovato collocato in una fase della civiltà delle immagini tecniche in cui la fotografia si è ormai definitivamente diffusa da Parigi a tutte le periferie del mondo (nella Sicilia del Grand Tour, ad esempio, il barone von Gloeden è attivo fin da fine Ottocento) ma non è ancora entrata nel vivo del dibattito filosofico; una fase in cui chi sa scrivere magari non sa fotografare e chi sa pensare magari non pensa alle (sulle) immagini.

Le poche e banali (tranne una in cui una capra viene munta davanti alla porta della cliente del pastore-lattaio) fotografie scattate da Leonardo Sciascia negli anni cinquanta – alla moglie, alle figlie, alle città e ai borghi della Sicilia (compresa la scalinata di Caltagirone in cui Scianna collocherà la modella Marpessa), ai posti visitati all’estero, come la Spagna – le guardiamo solo perché sono firmate dall’autore di Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Todo modo, Porte aperte. Invece gli scritti sulla fotografia pubblicati negli anni ottanta – il saggio contenuto nel catalogo Bompiani della mostra torinese Ignoto a me stesso (fotoritratti di scrittori da Poe a Borges, compreso un Pirandello rivelatosi pirandellianamente falso) e la prefazione al libro di Diego Mormorio Gli scrittori e la fotografia li rileggiamo come riflessioni di un letterato che ha avuto due amici ben coinvolti nelle immagini tecniche.

Il primo è il fotografo Ferdinando Scianna (Bagheria 1943), che ha vent’anni quando Sciascia visita per caso la sua prima mostra e ne ha venticinque quando assieme firmano il volume Feste religiose in Sicilia (ma ancora nel 1977 la firma di Sciascia compare nei libri di Scianna Les Siciliens e La villa dei mostri, così come nel 1988 le immagini di Scianna corredano Ore di Spagna di Sciascia).

Il secondo amico è giustappunto lo storico della fotografia Diego Mormorio (Caracas 1953), il quale fa leggere a Sciascia la tesi di laurea fatta con Mario Verdone relatore e si ritrova aiutato a pubblicare per Sellerio Una invenzione fatale (sottotitolo Breve genealogia della fotografia), iniziando una collaborazione che culmina nel citato Gli scrittori e la fotografia (un lavoro che ha coinvolto anche la moglie di Sciascia, Maria Andronico). Adesso, nel centenario della nascita dello scrittore scomparso nel 1989, il vecchio allievo e amico chiude il cerchio riunendo in un volumetto la sua ricostruzione di Leonardo Sciascia e la fotografia (con citazioni di saggi ormai introvabili, come quello su verismo e fotografia), gli scatti che abbiamo citato in apertura e, soprattutto, i due scritti brevi ma preziosi (ci soffermeremo su quello del 1987 intitolato Il ritratto fotografico come entelechia).

Sciascia sembra accettare la tesi di Mario Praz secondo cui non c’è nessuna obiettività che renda il ritratto fotografico più attendibile di quello pittorico, ma poi vira verso il metafisico e lascia che la differenza fra i due mezzi insorga e s’imponga:

Nel ritratto fotografico – almeno in uno, degli uomini di cui conosciamo, sia pure sommariamente, la vita, la storia personale, l’opera – si realizza un’attendibilità che non pone o allontana il problema della somiglianza fisica e però restituisce il senso di quella vita, di quella storia, di quell’opera compiutamente, in “entelechia”. E si vuole proprio dire dell’entelechia aristotelica, dantesca, goethiana (lasciando da parte la monade di Leibniz, meno suggestiva) (Sciascia 2020, p. 81).

Il termine filosofico “entelechia”, che in Aristotele è il passaggio dalla potenza all’atto di un organismo autopoietico, è preso da Sciascia più dal versante letterario (Hofmannsthal che cita Heimann che cita Goethe: «Un uomo che muore a trentacinque anni è in ciascun punto della sua vita un uomo che morrà a trentacinque anni») che non da quello scientifico (manca all’appello l’embriologo Hans Driesch, autore nel 1894 di una Teoria analitica dello sviluppo organico).

Il primo riferimento di Sciascia è La camera chiara: il Roland Barthes che cerca la “verità del volto” della madre appena scomparsa e la trova in una foto di lei bambina, cioè in un volto che non può aver visto personalmente, evidentemente non sta cercando una somiglianza fisica ma una entelechia, una sorta di essenza intesa come assoluta singolarità (dunque legata al punctum che Barthes difende come tecnica ermeneutica destituita di fondamento scientifico). Ma il titolo della mostra Ignoto a me stesso viene da una quartina che Paul Valéry (peraltro autore di un Discorso per il centenario della fotografia pronunciato alla Sorbona nel 1939) ha dedicato a un suo ritratto fotografico non identificato: «Se mi trovassi davanti a questa effigie / ignoto a me stesso, ignaro dei miei lineamenti, / in tante orride pieghe d’angoscia e d’energia / leggerei i miei tormenti e mi riconoscerei»; il che trasforma l’immagine tecnica nello specchio di Lacan (quello in cui “io è un altro”).

Ma davvero questo meccanismo, che sembra legato alla relazione empatica col fotoritratto proprio o di una persona affettivamente vicina, vale per qualunque immagine tecnica di un volto? Per trovare risposta possiamo farci aiutare dall’ultimo libro scritto da Ferdinando Scianna, il cui sottotitolo è Una storia personale del ritratto fotografico. In questa ricostruzione, tutto comincia con l’autoritratto fake di Hyppolyte Bayard (1840): per protesta contro il governo francese che ha preferito acquisire l’invenzione di Daguerre, lo scopritore del procedimento negativo/positivo su carta si ritrae come cadavere, mani nere e volto nero da annegato suicida; qui l’entelechia è messa in scena come una sorta di destino, rappresentato come compiuto e dunque minacciato come possibile predeterminazione.

Ma questa sorta di recita si trova anche nelle facce finzionali di Lewis Carroll (le minorenni che recitano personaggi favolistici, Cappuccetti Rossi per il lupo fotografo) come di Julia Margaret Cameron, del citato von Gloeden (i carusi siciliani trasformati in incarnazioni del mondo pagano, molto prima dell’utopia di Pasolini) come dell’antropologo Edward Curtis (venti volumi di ritratti degl’indiani nordamericani, come per risarcire i nativi pellerossa immortalando le facce che scompaiono, nobilitate dalle decorazioni guerriere). Se i fotoritratti di Nadar vengono ben pagati da committenti ricchi (con l’eccezione dello squattrinato amico Baudelaire) e le carte da visita inventate da Disdéri soddisfano la crescente richiesta della borghesia, se insomma il fotoritratto d’élite è una estetizzazione post-pittorica della gerarchia sociale, il fotoritratto di massa (quello giudiziario di Bertillon e di Lombroso, non quello empatico di Sander) è una tassonomia statistica: nelle foto composite di Francis Galton gl’individui scompaiono nei tipi e nelle razze, e dunque l’entelechia diventa il destino degli stigmatizzati, i votati alla soluzione finale.

Insomma, non solo non esiste ritratto se non di un essere umano (non si dà ritratto di animale, nonostante il selfie del macaco), ma addirittura «non tutte le fotografie di persone sono ritratti» (Scianna 2020, p. 120): nella foto autoriale (ma in questa locuzione l’aggettivo precede logicamente il sostantivo?) il soggetto ritratto è un soggetto ritrattile, che si ritrae nel suo contesto, nel suo spazio vitale; nella foto anonima (ma l’anonimato è una caratteristica del fotografante o del fotografato?) la perdita dell’aura paventata da Walter Benjamin diventa la riduzione del corpo ad oggetto (per cui nel 1943 l’artista ebreo Felix Nussbaum dipinge un autoritratto in cui tiene in mano – in un agghiacciante confronto fra immagine manuale e immagine tecnica – il suo passaporto con la foto in bianco e nero). L’entelechia non è per tutti; e forse, nella nostra epoca in cui gli “istanti di volti” proliferano metastaticamente nell’inforete arrivando da ogni spaziotempo (compie trent’anni quest’anno il primo selfie cinematografico, la polaroid scattata da Thelma e Louise nel film di Ridley Scott datato 1991), non è per nessuno.

Forse potremmo accontentarci della fotogenia (quella teorizzata da Delluc, Epstein, Morin) se non fosse che anche la fotogenia è un sentimento. Chi non lo possiede o non ne è posseduto, può solo ricorrere alla geniale frase fatta che Sciascia scopre nel Piccolo dizionario borghese (1941) di Vitaliano Brancati e Leo Longanesi: «Nelle fotografie vengo un orrore».

Riferimenti bibliografici
F. Scianna, Il viaggio di Veronica, Utet, Milano 2020.
L. Sciascia, Sulla fotografia, Mimesis, Milano 2021.

Leonardo Sciascia, Sulla fotografia, Mimesis, Milano 2021. 

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