Nell’epoca della crisi ambientale, diviene centrale interrogarsi intorno alla connessione tra le soggettività umane e non umane. Una riflessione avveduta sulla questione ecologica, come suggerisce Félix Guattari, problematizzando il rapporto tra umani e non umani – piante e animali, ma, oggi, anche computer e telefono cellulare –, non può fare a meno di interrogarsi sullo statuto stesso della soggettività umana, quindi di analizzare fondamenti sociali, ordinamenti politici e strutture mentali (cfr. 2007; 2019).
Esplorando quei legami, la soggettività umana si rivela costantemente, irrimediabilmente connessa a qualcosa d’altro, tanto da mettere in questione il diritto del soggetto umano di definirsi tale: può scoprirsi una cosa tra cose – scoperta che diviene il fulcro di un’estetica e, insieme, di un’etica e di una politica ecologiche. Come può, però, un pensiero ecologico radicale analizzare quelle connessioni, se prima non analizza sé stesso in quanto processo necessariamente invischiato con la materialità dei legami su cui e con cui pensa? Non occorre che, innanzitutto, il pensiero recuperi radicalmente la sua materialità? Se sì, come?
Nel suo Sul filo. Esercizi di pensiero materiale (Quodlibet, 2024), Stefano Catucci traccia una preziosa via per esplorare la materialità del pensiero, individuando, in particolare, in un «pensiero dei fili», la posta in gioco principale del pensiero materiale: sfatare l’idea che il pensiero sia la facoltà di «tendere un filo», per dirla con Deleuze e Guattari, tra un soggetto e un oggetto. È proprio con questa frase di Deleuze e Guattari che Catucci introduce Sul filo: «Pensare non è tendere un filo tra un soggetto e un oggetto»; una frase che viene occultata dalla persistenza di fili «virtuali o metaforici che collegherebbero le cose e le parole, la coscienza e i suoi contenuti, la malleabilità di quanto immaginiamo e la durezza di quanto ci si para “contro”» (Catucci 2024, p. 7).
Un pensiero materiale, dunque, deve innanzitutto spingersi al di là del filo che collega soggetto e oggetto, o al di là del filo che vorrebbe portare e aggrovigliare il soggetto sull’oggetto. In ogni caso, non ci sbarazziamo di quel filo: perché è solo pensando il filo stesso che è possibile, per un pensiero radicalmente materiale, comprendere se il funzionamento del «processo di individuazione» o di soggettivazione «abbia inizio da uno o dall’altro capo di un filo o se si svolga, invece, proprio al livello di quella connessione che siamo così rapidi a virtualizzare, dunque sul filo» (ivi, p. 9).
Per pensare il pensiero nella sua materialità senza perdersi nei grovigli che può creare un filo non rigorosamente dipanato – quel filo che, poi, è il pensiero stesso –, Catucci adotta un metodo archeologico che considera il filo in quanto metafora, perché:
Le metafore che illustrano il funzionamento del pensiero ricorrendo ai fili sono antichissime, ma non sempre hanno avuto lo stesso significato, anzi, sono state molto sensibili ai mutamenti dei fili reali da cui i processi di metaforizzazione hanno preso avvio: materie vegetali, animali, minerali, sintetiche, metodi di lavorazione, uso delle macchine, dunque tecnologie, codificazione della produzione su schede perforate o tramite strumenti digitali, descrizioni fisiche e ingegneristiche delle loro proprietà (ivi, p. 10).
Il metodo archeologico adottato da Catucci, in linea con l’archeologia foucaultiana su cui ha già lavorato, ha l’obiettivo di estrarre dal suolo della storia delle idee e della cultura «reperti di fili materiali rimasti sepolti nel linguaggio fino a essere traslati sul piano dei concetti» (ibidem). Accanto allo scavo archeologico delle metafore dei fili, il testo si presenta anche come un esercizio del pensiero, che sonda le «esperienze nelle quali i fili sono parte costituente del pensare» (ivi, p. 14). Esperienze che, fatte nel filo, con il filo, o, meglio, sul filo, rischiano di trovare un’impasse nel linguaggio e nelle metafore attraverso cui si tenta di pensarle e di esprimerle.
L’impossibilità di dire del filo, con il filo e sul filo, però, sembra aprire un altro spazio del pensiero, al di là della capacità umana di costruire connessioni discorsive e sensate: un’apertura in direzione delle alterità più radicali che, nella loro esperienza del mondo, fanno a meno di schemi linguistici. In effetti, la sfida principale di un pensiero che si apre ai vortici di rimandi del «pensiero dei fili» è «evitare affermazioni di ordine generale che definiscano l’attività del pensare o quello che noi siamo» (ivi, p. 16), rivelando, nell’esercizio di un pensiero materiale, che l’umano è tutt’ora preso in un processo di divenire-umano:
Un processo ancora in corso e che oggi ci pone urgentemente davanti al problema del rapporto con il non-umano. Perciò, invece di condensare in enunciati generali ipotesi su ciò che siamo o che non siamo, si accetterà di trovarsi già sempre nella corrente di quello scambio con le cose e con le persone da cui ricaviamo anche la costituzione del nostro Sé, la formazione di ciò che individualmente diventiamo senza mai smettere di essere fuori di noi (ivi, p. 17).
D’altronde, il filo stesso è innanzitutto intrecciato ad altri materiali: fune, corda, cavo; «con quelle della linea e del circolo, del nodo e del tessuto, del ricamo e della rete, del fare e del disfare» (ivi, p. 19), con altri materiali, cioè, che legano e si legano alle condizioni di possibilità dell’esperienza del pensiero: lo spazio e il tempo.
Tuttavia, il filo ha una sua specifica materialità che lo rende peculiare rispetto ai suoi fratelli e alle sue sorelle: ad esempio, un filo «non si traccia, come si traccia una linea, e una linea non può cadere, cosa che invece può succedere al filo» (ivi, p. 29). Catucci sonda le proprietà materiali del filo per considerarlo dal punto di vista di «un’ontologia materiale che in parte lo libera dal monopolio del linguaggio, in parte vi riconosce una cosa e un complesso di azioni non racchiudibili solo in una metafora» (ivi, p. 32). Il pensiero del filo o, meglio, forse, dei fili, dunque, è sempre un’eccedenza: innanzitutto rispetto al linguaggio, che dovrebbe rappresentare l’unico modo di funzionamento, quindi di espressione, del pensiero stesso.
È un pensiero che trae la possibilità del suo paradossale statuto solo se si pensa sul filo, ossia nella pura possibilità della connessione, nella relazione «che intende l’atto del pensare come un’azione e che nel rapporto con l’alterità riconosce un suo aspetto costitutivo, non più riconducibile alla tradizionale distinzione fra un interno e un esterno, un soggetto ansioso di affermare la sua centralità e un oggetto che lo costringe a misurarsi con ciò che gli è estraneo» (ivi, p. 45).
Un pensiero che si pensa in termini di relazione, quindi, può pensarsi solo come potenza, rifuggendo la domanda sull’essere: come Deleuze, pensando al corpo, cioè all’elemento di vita che costringe a pensare la vita stessa che si sottrae al pensiero, si domanda cosa può un corpo?, Catucci, rispetto al filo in quanto materia che forza il pensiero e l’umano a pensarsi altrimenti, si chiede cosa può fare un filo?, domanda che diviene, nella misura in cui anche un filo interagisce con i corpi, cosa si può fare con un filo? (cfr. ibidem).
Nelle figure del funambulo, da Philippe Petit a Nietzsche; nella Fenomenologia del cordone ombelicale, dove è soprattutto il palombaro, nelle profondità marine, a fare da contraltare alle altezze vertiginose di chi è attratto dal vuoto; da Beckett alle marionette di Kleist e di Mimmo Cuticchio; fino ad arrivare al cucito come azione politica a partire dalle Suffragette; alle storie di fili narrate nelle letterature greca e romana; alle opere di Maria Lai e dell’artista afghana Lida Abdul: il filo, nel corso del testo, non assume mai una definizione, perché si perde nei meandri delle connessioni che traccia. Tra umani e non umani, tra estetica e politica, tra passato e presente.
Fino a esplicitare, alla fine delle sue pagine, che c’è una connessione anche tra me e lui: io, che sono la lettrice del suo testo; una connessione presente fin dall’acquisto del libro, ma che solo alla fine della lettura diviene evidente, e che concede a Catucci di pormi delle domande intorno al mio sentimento dei fili (cfr. ivi, pp. 196-198).
Anche quelle domande, dunque, sono tese alla costruzione di un’estetica della connessione «che prefiguri un’ontologia nella quale l’umano e il non-umano, vivente o non vivente, rivelino la loro interdipendenza cognitiva, psichica, affettiva» (ivi, p. 59), perché sono domande che trasformano chi le pone e chi le riceve, allo stesso modo in cui avviene una trasformazione ogni volta che ci relazioniamo a una qualunque alterità (umana o non umana).
Da un lato, allora, l’archeologia dei fili di Catucci, tesa alla costruzione di un’estetica della connessione in grado di anticipare un’ontologia del non-umano, fa emergere «alcuni degli atti che hanno storicamente preparato» la solitudine e l’alienazione consequenziale alla separazione tra soggetto e oggetto, che è «il sintomo di un sistema di potere e di sapere che mira a produrre una condizione generalizzata di solitudine» (ivi, p. 199), e che è anche il fondamento del soggetto filosofico – «europeo, bianco, maschio, oltre che riconducibile alla sua idea di “normalità adulta”» (ivi, p. 200), continua Catucci riprendendo le considerazioni del tardo Husserl, su cui ha già lavorato.
Dall’altro lato, però, l’esercizio di pensiero materiale che è Sul filo mostra all’opera «un pensiero che si pratica materialmente insieme ai fili e che si apre alla proliferazione di differenze non più racchiudibili nella centralità di un soggetto autonomo. Questo pensiero costituisce sempre i processi di individuazione in connessione reciproca con l’alterità, compresa quella con il non umano, vivente o non vivente, artificiale o naturale che sia» (ibidem).
Riferimenti bibliografici
F. Guattari, Caosmosi, Costa & Nolan, Genova 2007.
Id., Le tre ecologie, in F. Guattari, F. La Cecla, Le tre ecologie, Edizioni Sonda, Milano 2019.
Stefano Catucci, Sul filo. Esercizi di pensiero materiale, Quodlibet, Macerata 2024.