Perché, disse, le battaglie non si vincono mai.
Non si combattono nemmeno.
L’uomo scopre, sul campo,
solo la sua follia e disperazione,
e la vittoria è un’illusione
dei filosofi e degli stolti.
William Faulkner
Quando le ferite del tempo cominciano a smangiare lo spazio entro cui si muove una donna, Clarisse (Vicky Krieps), e il flou incede sempre più minaccioso dallo sfondo verso l’antepiano dove il suo volto continua ad ardere come una fiammella fulgidamente fragile esposta ai quattro venti, e quando la fine sembra ormai vicina – anche se il film è appena iniziato! – è ancora possibile “ricominciare” (è su questa parola che si apre il film), come un direttore d’orchestra che interrompe un’esecuzione imperfetta, e ripartire per tuffarsi nell’abisso, reinterpretando senza requie la storia. A bordo di una AMC Pacer di fine anni settanta, Clarisse viaggia nello spazio per incunearsi tra le maglie del tempo, afferrandone i capi e sollecitandoli fino allo strappo. Mentre in una giocosa pausa in famiglia si programma una gita a cui Clarisse è costretta da impegni lavorativi a sottrarsi, si sancisce il suo tragico destino che la porterà a perdere il marito e i due figli a causa di un incidente in montagna.
Eppure in Stringimi forte (2021) – sesto lungometraggio diretto da Mathieu Amalric – non c’è traccia di passività melodrammatica, poiché la dimensione del patire è logorata dal movimento incessante di Clarisse, dal suo agire malgrado tutto. Da attore-autore qual è, Amalric bilancia teoria e sentimento, mente e spirito, rendendo il film un “laboratorio autoriflessivo” (Masciullo 2017) in cui il regista aderisce alle torsioni attoriali e ne amplifica la potenza espressiva. Come testimonia la sua filmografia, da Mange ta soupe (1997) a Barbara (2017), Amalric continua a concepire il cinema come una macchina da guidare con il massimo della competenza, dosando con accortezza variazione e ricorsività, conscio che, in fin dei conti, filmare implica lo stabilirsi di un contatto con la corporeità degli attori e di ogni altro s/oggetto rappresentato, poiché solo così può sprigionarsi la forza stilizzante del cinema.
Le azioni di Clarisse fanno il film che lo spettatore vede dipanarsi sullo schermo: il film non è altro che la forma da lei plasmata. Clarisse compone il film per sé stessa, infervorandosi quando la forma non è in grado di ripopolare gli spazi ora desolati ma un tempo animati dai suoi cari. E se lo spazio-tempo dell’immagine non è capace di insufflare nuovamente la vita nei corpi irrigiditi trasportati sulle barelle, è il suono a farsi carico dei vuoti, a dare corpo all’impossibilità della narrazione, in un tetro riecheggiare che scandisce il divenire-carne della mancanza, creando una forma dell’assenza che non è affatto assenza della forma: più che mélo, insomma, mèlos, melodia che si fa carico di cantare – come l’“ira funesta” che non può essere narrata, ma “cantata” – e di mostrare e di far percepire ciò che trascende le parole, il battito a-significante che irrora il Verbo.
Giocando una serissima partita a memory in cui le carte costituiscono per lei una coppia soltanto quando riescono a far risuonare le corde dell’anima, emerge in tutto il suo impeto il trauma che la porta a rifiutare il mondo come qualcosa di già dato e che al massimo bisogna ricomporre. Per questo il film non può che negare l’immagine e i rigidi concatenamenti narrativi. Non vi è infatti una cronologia da ricostruire à la Nolan (Memento, 2000) né una “lacuna” da sanare à la Gondry (Se mi lasci ti cancello, 2004), perché il “film di Clarisse” è un viaggio che produce una freccia del tempo mai regolare: il suo metronomo è quello, universale e singolarissimo, del dolore. Il montaggio audio-visivo disintegra la logica che istituisce il flashback e il flashforward in favore di un presente che è quello della fotografia istantanea, di una Polaroid che crea immagini impresse direttamente in positivo, aggirando il passaggio del negativo, fase in cui è ancora possibile determinare una cesura netta tra arte e vita, dolore catartico e dolore smisurato, non figurabile.
Per Clarisse la creazione è l’apparizione di una vicinanza, per quanto questa possa essere lontana. Da qui la natura aptica dei suoni e delle immagini – che in alcune sequenze sembra quasi riportare alla stagione della New French Extremity – e la flagranza dolente dei fantasmi familiari, i quali, più che presenze percepibili soltanto dai sensitivi, sono innanzitutto dei corpi filmati in maniera iperrealista (come dichiarato da Amalric stesso); corpi che incarnano la mancanza e il dolore della perdita. Alla stessa stregua vengono trattati gli altri s/oggetti (l’auto, il tavolo da soggiorno, il pianoforte, la porta, la maniglia, la finestra) che, proprio grazie alla loro “cosalità”, possono mettere in comunicazione persone, luoghi e tempi che non sono più quelli di una volta o che, semplicemente, non sono più. Così il parabrezza coperto da un spesso strato neve si trasforma in un oblò attraverso cui ritornare all’atmosfera sognante della discoteca dove Clarisse ha incontrato il marito; e una nota che rompe il silenzio disperdendosi nell’atmosfera, transitandovi in tutta la sua tetraggine, può evolversi in un frammento di Für Elise suonato goffamente dalla figlia e, ancora, in un’impeccabile sonata eseguita dalla stessa (?) per guadagnarsi un posto in conservatorio.
Il montaggio e la messinscena – che è già a sua volta frutto di montaggio – raccordano istanti e sensazioni (azioni dei sensi) eterocliti, accentuando, come nella migliore tradizione melodrammatica, «il simbolismo delle situazioni, la forza dei gesti, il significato degli sguardi» (Dagrada 2007, p. 15). Come un distico del brano di Étienne Daho La nage indienne che ha ispirato il titolo del film (Serre-moi fort si ton corps se fait plus léger / Je pourrais nous sauver), più il dolore della mancanza si fa forte e il mondo in cui ha fino ad allora abitato comincia a offuscarsi, più Clarisse tiene stretti a sé gli oggetti che le ricordano il marito e i figli. Allo stesso modo, grazie alla concretezza dell’illusione, agli ossimori della distanza e agli sconfinamenti sinestetici si schiude l’opportunità per elaborare il lutto, guardando alle piccole distrazioni e difficoltà dell’intimità quotidiana, fatta di sentimenti sovrastanti, tanto più carnali quanto più indecifrabili, per dargli il giusto peso e imparare a stringere meno forte, ad accettare che le cose possano andare diversamente da come le si era progettate – che una coppia possa essere affiatata pur non muovendosi sulla “rotaia” dell’identità, come esige il gioco del memory, ma ambire invece a essere uno il complemento dell’altra, costituendo così il binario che permetta al viaggio di riprendere –, a lasciar andare per ritrovare sé stessi.
Riferimenti bibliografici
E. Dagrada, a cura di, Il melodramma, Bulzoni, Roma 2007.
P. Masciullo, Road to Nowhere. Il cinema contemporaneo come laboratorio autoriflessivo, Bulzoni, Roma 2017.
Stringimi forte. Regia: Mathieu Amalric; sceneggiatura: Mathieu Amalric; fotografia: Christophe Beaucarne; montaggio: François Gédigier; interpreti: Vicky Krieps, Arieh Worthalter, Anne-Sophie Bowen-Chatet, Sacha Ardilly, Juliette Benveniste, Aurèle Grzesik, Aurélia Petit, Erwan Ribard, Cuca Bañeres Flos, Samuel Mathieu, Jean-Philippe Petit, Clémentine Carrié; produzione: Les Films du Poisson; distribuzione: Movies Inspired; origine: Francia; durata: 97’; anno: 2021.