Non ci saranno festeggiamenti, ma nel corso di questo 2022 contrassegnato dall’assalto russo all’Ucraina (e conseguentemente dall’ennesima crisi Russia/USA o meglio, o peggio, Russia/Occidente) si presenteranno due anniversari a cifra tonda: quello della prima bomba H (all’idrogeno), costruita nel 1952 dagli americani (evidentemente in risposta all’atomica sovietica del 1949); e quella della “crisi dei missili di Cuba” che nel 1962 contrappose Usa e Urss all’indomani della fallita spedizione anticastrista alla Baia dei Porci. Due date che dovrebbero ricordare ai baby boomers che l’intera loro vita si è svolta all’insegna della cosiddetta “era atomica” creata dagli scienziati (Christopher Nolan ha già annunciato l’uscita per l’estate 2023 del film Oppenheimer, dedicato al direttore del Progetto Manhattan che poi si schierò contro la costruzione della bomba H voluta dal presidente Truman) e dunque all’insegna dell’equazione terza guerra mondiale = fine del mondo.
Il secolo del genocidio è stato anche il secolo dei neologismi: il termine stesso “genocidio” fu introdotto nel 1944 dal giurista Raphael Lemkin, che aveva in mente il massacro degli armeni avvenuto in Turchia nel 1915/16, e dunque prima di quello che fu poi definito Olocausto o Shoah. L’era atomica, iniziata con l’introduzione di un aggettivo diventato ben presto sostantivo (l’atomica britannica, l’atomica francese, l’atomica cinese e così via proliferando), ha costretto il mondo intero a imparare i termini relativi al funzionamento e alle conseguenze della “superbomba” (fissione nucleare vs fusione termonucleare, reazione a catena, radiazioni, fall out ecc.) e anche quelli relativi alla “guerra fredda” fra le due “superpotenze” (bipolarismo, eccezionalismo, teoria del domino, deterrenza) comprese sigle da umorismo nero come MAD (mutual assured destruction, coniata nel 1963 dal segretario alla difesa McNamara per indicare il cosiddetto “equilibrio del terrore”, ma leggibile come “pazzo”; fra l’altro anche il magazine satirico MAD – famoso per il motto “What, me worry?”, “Preoccupato io?” – è nato nel 1952).
Altri neologismi hanno ormai perso il loro collegamento all’era atomica, ma è bene che i giovani sappiano: il 5 luglio 1946 il sarto francese Louis Réard presenta a Parigi un costume da bagno in due pezzi, più piccolo del modello presentato due mesi prima da Jacques Heim e chiamato Atome, e lo battezza Bikini come l’atollo delle Isole Marshall (nel Pacifico) sede in quell’anno del test nucleare americano denominato Operazione Crossroads; la ventenne modella Norma Jeane Mortenson indossa il bikini già in una foto del 1946, prima di diventare Marilyn Monroe, ma per vedere il due pezzi al cinema bisognerà aspettare la Brigitte Bardot di Piace a troppi (1958) e la Ursula Andress di Agente 007 – Licenza di uccidere (1962, un altro sessantesimo compleanno), primo film in cui compare il personaggio della spia britannica James Bond (inventato dal romanziere ex-spia Ian Fleming nel 1952) e in cui il cattivo muore in un reattore nucleare.
Anche la bomba H viene testata a Bikini, un atollo che subisce danni irreversibili non solo a causa degli esperimenti del decennio 1946/57 (67 bombe all’idrogeno che distruggono barriere coralline millenarie e scavano crateri profondissimi) ma perché gli americani lo trasformano in una discarica duratura di scorie nucleari (la Cupola Cactus contiene 84.000 metri cubi di materiale radioattivo, compreso quello proveniente dal Nevada); bisognerebbe interrogare SpongeBob, il cartone animato allocato a Bikini Bottom, per sapere come si sta a nutrirsi di cibo radioattivo. Fatto sta che alla bomba costruita da Edward Teller, lo scienziato su cui Peter Goodchild ha scritto un libro intitolato Il vero dottor Stranamore, fa seguito la Bomba Zar (detta anche Big Ivan) progettata da Andrej Sacharov, che per questo dispositivo da cento megatoni riceve il premio Stalin 1953 e il premio Lenin 1956; va detto che, come Oppenheimer negli Stati Uniti si converte all’antinuclearismo venendo estromesso dagli ambienti della ricerca scientifica, anche Sacharov passa ad un’attività politica contestativa che gli frutterà nel 1975 il premio Nobel per la pace.
E gli artisti, come reagiscono? Nel 1957 esce negli Stati Uniti il romanzo dello scrittore australiano Nevil Shute intitolato On the beach, che vende centomila copie in un mese e mezzo raccontando la fine dell’umanità conseguentemente alla terza guerra mondiale, iniziata dall’Unione Sovietica ma combattuta secondo i principi dell’escalation ritorsiva, che porta alla distruzione dei due blocchi ma poi dell’intero pianeta ormai radioattivo (la storia si svolge in Australia, dove i superstiti sanno di essere comunque destinati ad una rapida estinzione); due anni dopo il produttore/regista antinuclearista Stanley Kramer (quello di Indovina chi viene a cena?) ne ricava un film (titolo italiano L’ultima spiaggia) che segna la fine del rapporto fiduciario tra Hollywood e il Dipartimento della Difesa durato per tutti gli anni cinquanta. Il film è ambientato a Melbourne nel 1964: l’apocalisse è annunciata come un evento del futuro prossimo, il mondo finisce sia con un’esplosione (nucleare) che con un sussurro (quello dei superstiti che si suicidano); e il finale con gli ambienti svuotati sarà ben presente all’Antonioni di L’eclisse (1962). Curiosamente la sequenza del Gran Premio d’Australia, una sregolata corsa automobilistica (vinta da una Ferrari) metafora della suicida corsa agli armamenti, sarà alla base del ciclo Interceptor/Mad Max, che negli anni ottanta decreterà l’ascesa internazionale del cinema australiano all’insegna del genere post-apocalittico.
Nel 1958, di ritorno da una delle marce della pace organizzate dal filosofo Bertrand Russell, il poeta beatnik Gregory Corso scrive Bomb, un componimento battuto a macchina in maniera tale che i versi (ciascuno di lunghezza progettualmente differente dagli altri) formino – guardando sinotticamente l’insieme dei fogli disposti in verticale – una silhouette ormai nota al grande pubblico: il “fungo atomico” associato alla Bomba per antonomasia. Insomma un calligramma come quelli che il poeta-soldato Apollinaire pubblicò nel 1918, alla fine della Prima guerra mondiale da lui definita “un grand spectacle”; solo che i calligrammi autografi di Apollinaire rivelano la nostalgia di un piccolo mondo antico/moderno (un violino, un vaso da fiori, la Tour Eiffel…) mentre Corso è già nell’ironia postmoderna di chi ha imparato a non temere e ad amare la Bomba. Il poeta si rivolge all’ordigno dandogli del tu (“You are as cruel as man makes you / and you’re no crueller than cancer”) e finisce col dichiarargli il suo amore: “O Bomb I love you / I want to kiss your clank / eat your boom”.
Nel 1962, quando la crisi dei missili di Cuba fa precipitare il mondo sull’orlo della terza guerra mondiale (risolta personalmente da Kennedy e Kruscev con l’introduzione della “linea calda” Washington/Mosca), Stanley Kubrick si è già trasferito in Inghilterra per girare una black comedy nucleare basata sul romanzo di Peter George Two Hours to Doom. Fra i collaboratori chiamati da Kubrick ci sono: lo sceneggiatore Terry Southern, che trova il titolo definitivo Dr. Strangelove or How I learned to stop worrying and love the Bomb; lo scenografo Ken Adam, ammirato per Agente 007 – Licenza di uccidere, che progetta la war room e anche l’interno del bombardiere (si tenga conto che all’epoca nessuno sa com’è fatta una bomba atomica); e il cowboy Slim Pickens, che cavalcando la bomba N come fosse un puledro da domare si trasforma nel simbolo visivo del bellicismo yankee.
Il finale a torte in faccia viene sostituito da un montaggio concettuale: un assemblaggio di funghi atomici (materiale di repertorio, visto che gli effetti speciali dell’epoca non sono in grado di simulare una fusione nucleare) è commentato dalla canzone di Vera Lynn We’ll meet again (celebre in Gran Bretagna durante la Seconda guerra mondiale e poi citata dalla Regina Elisabetta nel messaggio alla nazione del 2020); le canzoni di propaganda mentono, con il conflitto nucleare non c’incontreremo più. Dunque, ora che la bomba H compie i 70 anni, è inutile chiedersi se ha fatto bene il suo lavoro di deterrenza. Bisogna semplicemente mandarla in pensione.
Riferimenti bibliografici
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