Su un grande palcoscenico londinese nel 1953 Stan Laurel e Oliver Hardy, oramai anziani, durante la tournée teatrale, che insieme segna un paradossale trionfo ed un ineluttabile tramonto, si esibiscono nel loro estremo balletto. Un balletto, quello da I fanciulli del West, 1937, che racchiude e dice tutto: “All the Ball, that’s All” come recita il titolo originale, memorabile come quell’altro “Guardando gli asini che volano”, secondo le parole italiane della canzoncina bislacca (in I diavoli volanti, 1939, doppiata da Alberto Sordi). La macchina da presa del film di Jon S. Baird inquadra per un po’ solo le loro ombre.
Poco prima Stan, dietro le quinte, aveva chiesto a Oliver se se la sentisse di prodursi in quel balletto. Oliver, stremato e attanagliato dalla malattia, aveva annuito. È una sorta di straziante addio della coppia comica più famosa del mondo: un balletto con le proprie ombre. Tutto il film sembra racchiudere questa idea. Stanlio e Ollio al tramonto, quando le ombre si allungano, sono come braccati da un destino crepuscolare e insieme come perseguitati dal loro passato glorioso, costretti a vivere nel quotidiano, tra la gente, per le strade (ripresi anche dalle cineprese pubblicitarie per “pompare” la tournée, su richiesta dell’impresario) le loro memorabili gag, che li inseguono, li trascinano come sospesi tra un passato che ritorna e si allontana contemporaneamente e l’ombra che si avvicina.
Fin dall’inizio del film, quando li vediamo incedere con il loro proverbiale ondeggiamento, con i loro passi elastici, travolgenti e impalpabili, lungo i viali degli studios hollywoodiani. Decenni prima di quella tournée, all’apice della loro carriera, mentre si sussurrano confidenze e salutano gli addetti ai lavori, adoranti, fin dall’inizio, appunto, la camera li riprende di spalle, in un morbido ma insieme attanagliante carrello, sospingendoli e come minacciandoli, inseguendoli, come le nostre ombre, di cui non possiamo liberarci.
La figura dell’ombra, del doppio, della diade, dell’altro è un segno della coppia: il grasso e il magro, il corpo pesante e l’anima aerea, l’ilarità e la malinconia, il passo falso e la piroetta, il capitombolo e l’involarsi. Una serie di cadenze doppie che strutturano la loro comicità e li rendono come inscindibili, appunto l’uno ombra dell’altro. “Stupìdo!” è l’epiteto con cui Ollio apostrofa Stanlio nei suoi atti mancati, nei suoi imbambolamenti e nelle sue ostinate pulsioni a equivocare e a far resistenza rispetto alla logica del mondo, salvo poi essere “risucchiato” lo stesso Ollio da quella sorta di raddoppiamento catastrofico di ogni atto che si trasforma in inciampo e quindi induce al riso. Come se quel duplicarsi di atti che vorrebbero entrare nella normalità, nella rispettabilità, li trascinasse nel loro lato di ombra e si facesse caricatura, sberleffo, ghirigoro che trasgredisce ogni normalità.
L’essere stupidi costituisce un prolungamento inusitato di uno stato di grazia che va sotto il nome di stupore. Sappiamo da Dostoevskij che l’estasi sacra è dell’idiota. Ecco, se Stan e Oliver, stupidi e idioti, ci fanno ridere, allo stesso tempo quasi ci intimidiscono e ci immalinconiscono senza un perché, come se le loro apparizioni, gag, balletti, fumisterie fossero l’irruzione angelica di qualcosa di sacro che proviene da un altro lato, in ombra, della realtà, e tutto trasfigura. Nel film l’insistenza, all’inizio e alla fine, sul “balletto” con quelle posture svolazzanti, i passetti che si sollevano da terra come le braccia che si inarcano come ali, sembra il segno di un destino che attiene al comico: quello di danzare (il riso liberatorio sul passo falso e sulla caduta fa da contraltare alla “felicità” del musical, che sfida ogni volta la legge di gravità).
Ma è anche l’epitome di una cadenza destinale del film: quel “balletto” che è stato il loro cinema viene trascinato verso le ombre. Ombre multiple. La loro inseparabilità (Laurel continuò anche dopo la morte di Oliver a scrivere gag e idee cinematografiche per la coppia), come essere l’uno ombra dell’altro, contromossa rispetto a ogni loro gestualità comica.
Il loro inscriversi in un vero e proprio rapporto d’amore (straordinaria l’inquadratura che li vede distesi, mano nella mano, in un letto matrimoniale che è anche quello di Oliver malato, guardando nel vuoto, con infinita tenerezza) che appunto ha in sé l’ombra del tradimento, del “non detto” (Oliver “tradì” Stan nel 1939 in Zenobia di Gordon Douglas, recitando da solo al fianco di Harry Langdon), come quando nel bel mezzo di una festa “d’onore” i due si rinfacciano finalmente quell’ombra sottaciuta (“Tu amavi Laurel e Hardy ma non hai mai amato me”). Il loro essere inseguiti, presi di contropiede, dalle gag che si ripercuotono nella vita, costituendone l’ombra persecutoria.
In questo senso il film insiste: la valigia che rotola per le scale della stazione dopo essere stata trascinata a fatica su, così come il pianoforte di una delle loro più celebri gag, oppure la gestualità di “tocchi e ritocchi” quando litigano in disparte e suscitano amaramente l’ilarità del pubblico di astanti che li osserva da lontano, o ancora il campanello dello scalcinato hotel inglese suonato a ripetizione da Stanlio, o il suo gesto del cappello quando è in attesa della risposta di un produttore per l’agognato film su Robin Hood, che sarà rifiutato, e costituirà una ulteriore e illusoria “ombra” non detta nel rapporto tra i due.
Il balletto d’ombre viene di continuo immesso nel film dal giustapporsi dei loro corpi fantasmatici, fin dentro il loro incedere melanconico lungo il tramonto, quello stesso schermo bianco e nero che ritorna alle loro spalle sul palcoscenico e che si immette, come controcanto, sullo “schermo” della vita. Ciò produce un altalenare del film, in sintonia con la cifra segreta di Laurel e Hardy, quella del sollevarsi e precipitare, come nello straordinario Alchemy (1933) di Lloyd French dove sono due spazzacamini che lavorano vicino al cielo sui tetti, salvo a precipitare, come fa Ollio, nel bidone dove un alchimista pazzo ha racchiuso un liquido magico che trasforma Oliver in uno scimmione, mentre Stan piange a dirotto, come “privato” della sua ombra, della sua metà, che si è tramutato in un animale. L’altalenarsi tra alto e basso che attiene allo stato “stupito”, allo sguardo della stupidità, che fa svaporare il pensiero nel suo lato di non senso. Scrive Gilles Deleuze:
La stupidità, che è una struttura del pensiero come tale e non un modo di ingannarsi, esprime in linea di principio il non-senso nel pensiero; essa quindi non è né un errore né un ordito di errori. Vi sono pensieri imbecilli, discorsi imbecilli che sono costituiti per intero da verità basse che provengono da un’anima bassa, greve e pesante come il piombo. Un modo di pensare basso e ciò che sta al fondo, ciò di cui la stupidità è sintomo (Deleuze 2002, p. 133).
Questo attrarre il pensiero verso la pesantezza del basso suscita il riso, il derisorio. Eppure, a questa “attrazione” verso il basso corrisponde un gesto che si solleva, una grazia comica, una piega che si inarca: «Una stupidità alta, che ha cioè una sua piega, una sua interiorità complessa, una sua intelligenza narcisistica». (De Conciliis 2008, p. 46). In questa duplicità è come se la “mossa” dello stupido surclassasse ogni restrizione bipartita tra normale e anormale, tra idiozia e intelligenza, tra alto e basso, tra comico e serio, e si mettesse a danzare. Ciò si illumina ancor meglio nella “coppia perfetta” di Stanlio e Ollio, perché ciascuno rovescia nell’altro la propria “illuminazione” e la propria umbratilità, ciascuno alterna, facendole rimbalzare, genialità e idiozia.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Nietszche e la filosofia, Einaudi, Torino 2002.
E. De Conciliis, Pensami, stupido!: La filosofia come terapia dell’idiozia, Mimesis, Milano 2008.
V. Frescura e F.C. Papparo, a cura di, Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema, Luca Sossella Editore, Roma 2000.