Mark Fisher condivide con Franco Berardi una convinzione sulla struttura temporale dei nostri tempi: siamo stati derubati del futuro. Quando ci si mette davanti alla TV, o si ascolta un pezzo alla radio, «non si ha l’impressione che il ventunesimo secolo sia già cominciato. Siamo ancora intrappolati nel ventesimo secolo» (Fisher 2019, p. 19). Come anticipato da Fredric Jameson, nella sua radiografia della postmodernità operata in tempi non sospetti, siamo tutti sostanzialmente immersi in una “modalità nostalgica”.
La rappresentazione più plastica che mi viene in mente dell’attivazione continua di una simile modalità “retromaniacale”, per dirla con Simon Reynolds, è la serie tv Netflix Stranger Things, non a caso tra le produzioni di punta del colosso americano dello streaming. Si tratta non solo di una serie ambientata negli anni ottanta, ma di un prodotto per nostalgici degli anni ottanta, al cui interno trova posto un’economia della citazione che spazia dai giochi di ruolo alle pellicole cult del periodo: si pensi, ad esempio, alla scena in cui Dustin Henderson, in un momento cruciale della terza stagione, mentre comunica via radio con la fidanzata Suzie per ottenere un’informazione fondamentale per le sorti della battaglia contro il Mind Flayer, viene praticamente costretto a intonare con lei, in una sorta di karaoke estemporaneo, The NeverEnding Story, hit della colonna sonora de La storia infinita (film del 1984 diretto da Wolfgang Petersen e tratto dal bestseller omonimo di Michael Ende).
L’immaginario evocato da Stranger Things, attraverso le note di TheNeverEnding Story, le partite a Dungeons & Dragons o il modellino del Millennium Falcon da Guerre stellari, è ben noto a più di una generazione, ma, secondo le categorie di Fisher, non si tratta qui dello stesso “effetto nostalgia” rintracciabile, ad esempio, nelle opere moderniste di Proust o di Joyce (ivi, p. 24). Mentre la madeleine proustiana si riallaccia a un sentimento connotato psicologicamente, nella direzione di una “ricerca del tempo perduto” che non rinuncia all’innovazione culturale, anzi si avvale di essa (vedi in questo senso anche l’Ulisse joyciano), la “modalità nostalgica” del postmoderno ripiega il desiderio sul passato (prossimo) nelle forme della retrospettiva, del citazionismo – del “pastiche”. Uno degli esempi più calzanti di questo passatismo (che è in realtà un anacronismo) è per Fisher la musica retrò di Adele: «Come tanta parte della produzione culturale contemporanea, la musica di Adele è satura di una vaga ma persistente impressione di passato, pur senza richiamare nessun momento storico specifico» (ivi, p. 27).
Giunti a questo punto, mi preme sottolineare due cose. La prima è che l’effetto nostalgia rivolto al passato prossimo agisce in tempi estremamente rapidi sul piano della mitizzazione retrospettiva del milieu di un decennio: bastano due decadi perché si sviluppi un senso di perdita associato al vagheggiamento del recupero di un certo Zeitgeist. La seconda è che una tale nostalgia sembrerebbe costituire, a un primo sguardo, una forma di desiderio isterico, per sua natura inappagato e inappagabile. Come fa notare ancora Jameson, ripreso a tal proposito da Fisher, la trilogia cinematografica fantascientifica più celebre degli anni ottanta, il già citato Star Wars, è in effetti una forma di citazionismo; non si tratta in Guerre stellari dell’invenzione di un futuro, ma della reinvenzione di un passato, del vagheggiamento nostalgico «delle serie alla Buck Rogers del sabato pomeriggio, trasmesse prima dalla radio e poi dalla TV» tra gli anni trenta e cinquanta: «Alieni cattivi, veri eroi americani, eroine in pericolo, il raggio della morte e l’ordigno dell’Apocalisse […]» (Jameson 1998, p. 8). Come vorrei tornare a quei pomeriggi… ma non posso!
Non troviamo niente, dunque, in Guerre stellari, né della tensione avveniristica né della nostalgia per un preciso periodo storico, ma rinveniamo del desiderio (sempre indiretto) di qualcosa – un qualcosa che non è mai temporalmente dove dovrebbe essere, ma è piuttosto sempre dislocato, sempre “discronico”, per dirla con Reynolds. Come l’oggetto = x deleuziano, che manca sempre al proprio posto, l’oggetto del desiderio nostalgico diventa l’indice di una mancanza, di un «profondo struggimento» (Fisher 2019, p. 27) privo però del tratto perturbante che ci si aspetterebbe da un simile spaesamento.
Le forme del passato evocate da Star Wars, nella loro fantascienza quasi cyber-punk, sono piuttosto l’espressione di una logica ludica del senza-tempo, una sorta di gamification del tempo e dello spazio assimilabile in tutto e per tutto alla jamesoniana “logica culturale del tardo capitalismo”. Il nuovo rapporto del “realismo capitalista” con lo spazio e con il tempo si configura quindi come una crisi delle coordinate del “qui e ora”, risucchiate completamente dall’azione del virtuale (ivi, p. 33), da quella «causalità spettrale» (ibidem) ben identificata da Deleuze, ma prima ancora da Freud e da Marx, nei termini di una “logica del fantasma” altrimenti traducibile come “hauntologia”.
Ancora una volta, mi sembra di poter dire, ci troviamo al bivio žižekiano tra una doppia interpretazione possibile della logica (deleuziana e psicoanalitica) del fantasma del desiderio: il virtuale/fantasmatico del mondo digitalizzato/smaterializzato è funzionale al capitalismo o esistono dei residui di apertura del campo virtuale non schiacciati sul Reale del Capitale? In altri termini: il carnevale dell’immaginario postmoderno, dalle serie tv ai meme sugli anni ottanta, giova solo all’industria del consumo culturale o c’è spazio per immaginare qualcos’altro?
Su questo crinale si muove l’hauntologia che Fisher mutua ovviamente dai derridiani Spettri di Marx. Secondo il versante più speranzoso di Ghosts of My Life (Fisher mutua il titolo del volume da un brano di Rufige Kru del 1994, ma il riferimento è anche a Ghosts dei Japan, band new wave britannica attiva tra i settanta e gli ottanta), la logica spettrale dell’haunting di Derrida apre alle cose la possibilità di non declinarsi esclusivamente come semplice presenza, ma di aprirsi al ventaglio di possibilità del “non più” e del “non ancora”.
Sappiamo bene che gli oggetti perduti della nostalgia ai tempi dell’industria culturale finiscono inevitabilmente per essere digitalizzati e consegnati al cyberspazio: è la scansione del passato, il passaggio dall’analogico al numerico, che lega per sempre la libido all’oggetto scomparso, scongiurando la perdita. Ciò che un tempo avrebbe preso la forma dell’esorcismo del passato, del rifiuto dello spettro, adesso assume i tratti della “rinuncia alla rinuncia”. Ma non si tratta qui semplicemente di sostituire il desiderio nostalgico (che implica l’accettazione della perdita e l’elaborazione del lutto), ossia il tradizionale rapporto col passato, con un rapporto simbiotico-pulsionale verso un passato che non c’è mai stato, secondo le forme della nostalgia postmoderna alla Star Wars.
Infatti, i fantasmi che infestano (to haunt) il campo virtuale della postmodernità, dalle tracce digitalizzate dei suoni analogici alle serie tv in streaming che citano l’immaginario anni ottanta, effettuano una torsione di ciò che provvisoriamente avevamo identificato come isteria, non solo o non tanto nel senso del godimento pulsionale del gadget (il Millennium Falcon), ma anche e soprattutto in quello della malinconia per il fantasma della traccia (magari The NeverEnding Story). Non è il ripiegamento su un particolare periodo storico che può salvarci o schermarci dal fantasma della depressione postmoderna, ma è la scoperta delle possibilità insite in una malinconia aperta tuttavia al futuro.
Questo tipo di malinconia è «un rifiuto di darsi per vinti» (ivi, p. 40), di cedere alla dittatura del “realismo capitalista”, di assoggettarsi all’attuale senza il campo virtuale, alla tirannide di ciò che è su quant’altro potrebbe ancora essere. La logica del fantasma prevede sempre infatti la possibilità di un doppio movimento, di recuperare dal campo del passato virtuale (un passato che, come dicevamo, per certi versi non c’è mai stato) un senso ulteriore rivolto all’avvenire. A costo di passare per inattuali, per reietti nella propria stessa epoca (Fisher fa l’esempio dell’estetismo anacronistico dei Japan, della “negromanzia accidentale” dei Joy Division), si può praticare il rifiuto del realismo neo-liberista, proiettando in avanti il fantasma del desiderio, gli “spettri dei futuri perduti”, dei “Natali-non-ancora-passati”. L’oggetto perduto non è dietro di noi, ed è questo il residuo trascendente del desiderio. Va però da sé che questa frequentazione con gli spettri, questo costeggiare la depressione, porta con sé dei rischi enormi: è sempre in agguato, come ben sapeva Fitzgerald, la Spaltung, la scissione, la rottura della superficie e lo sprofondamento negli abissi della schizofrenia o della depressione.
La malinconia ha infatti molti volti: chi ha abitato negli ottanta rimpiangendo i settanta, o nel ventunesimo secolo mitizzando gli ottanta (e i novanta), chi ha coperto una piatta vita di provincia di una patina di neo-japonisme, sa bene che da un momento all’altro il mondo potrebbe rivelarsi “triste come sembra”. Perché, come insegna Shining di Kubrick, «soltanto quando abbiamo accantonato l’ipotesi dei fantasmi soprannaturali possiamo affrontare gli spettri reali» (ivi, p. 171), ossia la casa stregata del realismo capitalista. Dobbiamo fare i conti con la depressione, come ha fatto tragicamente Fisher, per poter sperare nella malinconia? Cosa può far pendere l’ago della bilancia dalla parte del (non-)ancora, senza condannarci al mai più?
Se bisogna trangugiare tutta la Bevanda della Disperazione, come Albus Silente in Harry Potter e il principe mezzosangue, è perché la postmodernità ci ha messo di fronte a una eventualità sconfortante: «L’appagamento è il punto in cui devi affrontare la rivelazione esistenziale che non desideri davvero ciò che sembravi volere con tanta forza, che i tuoi desideri più pressanti sono solo un lurido trucco vitalista per mandare avanti lo spettacolo» (ivi, p. 90). Probabilmente, l’antidoto a una tale visione mortifera dell’esistenza sta nel denunciare la natura di pseudo-desiderio di una simile urgenza. “Non cedere sul proprio desiderio” implica entrare nella casa stregata del Luna Park di Stranger Things, “attraversare il fantasma” fino a capire che il nostro presente non è compresso tra futuri perduti e passati opprimenti, ma è aperto su un passato mai del tutto passato e su una riserva infinita di futuro.
Riferimenti bibliografici
M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma 2019.
F. Jameson, The Cultural Turn: Selected Writings on the Postmodern, 1983-1998, Verso, London 1998.
S. Reynolds, Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato, Minimum Fax, Roma 2017.