L’ex-sicario di un cartello messicano siede su una sedia al centro di una stanza, la Room 164 dell’omonimo documentario di Gianfranco Rosi (2010). Il suo volto è completamente coperto da un velo nero. Rosi gli porge delle domande e il sicario risponde con lunghi monologhi a proposito del suo passato: il momento in cui è entrato nel giro della droga, le dinamiche interne all’organizzazione criminale. Ma il flusso della parola non basta. Sulle ginocchia tiene un blocco di fogli bianchi e un pennarello con il quale fa corrispondere al suo impulso verbale immagini stilizzate che lo seguono e lo vivificano. Non sono disegni curati nei dettagli, sono piuttosto tracce grafiche del suo dire, segni che danno corpo ad una narrazione priva di supporto documentale e che tuttavia non vuole rinunciare ad incarnarsi in un medium diverso dalla parola per “verificarsi” e oggettivarsi in un orizzonte figurativo. Ogni ricordo sembra aver bisogno di una rappresentazione: il più concreto come il più astratto. La macchina con cui l’uomo da ragazzo comincia a spacciare è in questo senso sullo stesso livello del sogno di una vita finalmente serena e solida, tradotta su carta in quattro linee dritte e ben marcate chiuse in un rettangolo.

Dieci anni dopo, di fronte a numerosi casi di documentari che scelgono l’immagine animata per raccontare le loro storie, torna alla mente quell’uomo bendato con il suo pennarello, e ci si chiede cosa sarebbe accaduto se Rosi avesse deciso di dare a quei disegni una terza dimensione, animando il monologo del sicario e immaginando il contenuto di quel rettangolo bianco.

Oggi l’animazione sembra uno dei canali privilegiati del documentario contemporaneo, che non si accontenta di registrare la realtà ma a quest’ultima vuole dare una forma: reinventandola, rimontandola, affidandole una diversa voce. Si tratta di un cinema che compie a tutti gli effetti un atto di manomissione, attraverso una narrazione ibrida e desiderosa di mostrare i suoi processi interni: lo sguardo soggettivo dell’autore più che la dimensione referenziale («indexicale», per usare un termine che Bill Nichols riprende da Peirce) dell’oggetto scelto, l’aspetto performativo della creazione più che quello mimetico della riproduzione. Nell’incontro intermediale di diverse forme espressive — i materiali d’archivio, la fotografia, la pellicola ritoccata, il sonoro — c’è una via che più di altre permette l’atto appropriativo del soggetto sul reale, una via che è solo artificio, che per eccellenza “pensa con le mani” e si affida al più puro dominio dell’immaginazione: quella appunto della forma animata.

La domanda allora è: cosa, del reale, è “animabile”? Non il suo piano concreto e oggettivo, che per definizione permette di essere osservato e immortalato — che sia immagine del presente o del passato — e costituisce una rappresentazione della realtà insostituibile, o al limite soltanto “duplicabile”. A suscitare il desiderio di essere animato è invece il racconto del reale, una dimensione narrativa che trascende la realtà e la guarda dall’alto, da lontano, dall’esterno (nello spazio e nel tempo). L’autore di un documentario, incontrando una realtà, è chiamato prima di tutto ad ascoltarne il racconto: quello di chi abita quella realtà prima di lui, o, se parliamo di un’opera autobiografica, quello sedimentato nella sua memoria personale. Un simile racconto può scegliere di rimanere “sonoro” e interfacciarsi dialetticamente con il piano visivo — talvolta descrivendolo didascalicamente, talaltra, in modo ben più efficace, intrecciando con questo nodi di significato nuovi e inesplorati. Ma è pur vero che un racconto, dalla sua più antica accezione di fabula ad una qualsiasi cronaca dei nostri giorni, nasce da una voce che pensa per immagini, prima che sulle immagini. Se una modalità è dunque quella di far scivolare le due strade, quella della voce narrante e quella della rappresentazione del reale, parallelamente, una seconda possibilità è costituita dal ritorno del racconto alle sue immagini, quelle cioè presupposte, già da sempre, al suo interno.

Ecco allora che, proprio lì dove è il “detto” a sprigionare l’immagine e il discorso verbale scalpita per essere messo in forma, interviene l’animazione. Perché utilizziamo il termine “verbale”? Il racconto del reale a cui ci riferiamo si manifesta quasi sempre sotto forma di testimonianza, in cui si descrive quello che si vive o che si è vissuto: un ricordo, l’azione del tempo presente, un vuoto della memoria che si colma con un “sentito dire”. Ognuna di queste sfumature riporta ad un moto espressivo che, aderendo appunto al reale, sfocia in racconto prima di strutturarsi rigidamente nella scrittura. Si tratta prevalentemente della narrazione del sé, di un monologo interiore che si profila in una continua negoziazione tra il parlante e la circostanza espositiva in cui le sue parole prendono vita. La forma animata sembra così diventare una forma di “oralità” contemporanea, che a quelle parole restituisce le immagini, nate per caso e per caso piene di suggestioni involontarie, libere associazioni di idee che, come in ogni fiaba degna di tale nome, arrivano alle orecchie dell’ascoltatore sotto forma di continuum visuale, successione di figure a cui ci si sforza di dare un contorno e uno sfondo.

Stefano Savona arriva a Gaza nel 2009 e decide di raccontare il massacro della comunità dei Samouni da parte dell’esercito israeliano. Così nasce La strada dei Samouni (2018). Per farlo ha bisogno dei racconti di chi quelle atrocità le ha vissute, e tra tutti emerge quello della giovanissima protagonista del documentario, Amal, che ha perso suo padre e suo fratello e che vive, con chi è rimasto, la difficile e lenta ricostruzione della vita. La bambina esordisce dicendo che non è in grado di raccontare — o sarebbe meglio dire di raccontarsi —, ma non è affatto vero. Amal, come il sicario, lo fa disegnando. Traccia i suoi ricordi con il gessetto a terra e sui muri, descrive nel cortile fuori casa i vecchi spazi, bombardati, ripetendone i perimetri sul terriccio. Savona parte da questi monologhi “disegnati” e li integra con quelli di chi riesce a parlare di più: tutti insieme danno vita alla straordinaria animazione di Simone Massi, che già nei suoi lavori passati — pensiamo a Piccola mare (2003) o Io so chi sono (2006) — muoveva con il suo inconfondibile tratto i discorsi interiori, i sogni, le paure degli uomini.

“Chi non sa raccontare non è un uomo, è una bestia”, dice il padre di Amal ai suoi figli in una delle animazioni di Massi — e, dunque, in uno dei racconti di Amal. Il bisogno di raccontare e di popolare di immagini la propria memoria è nel film onnipresente: i bambini più piccoli vengono incalzati dalle mamme a disegnare i loro parenti scomparsi, perché non li dimentichino; la mamma di Amal nel blackout giornaliero racconta ai figli i suoi sogni notturni; i figli del capofamiglia si sforzano di ricordare i racconti che l’uomo inventava per tutti loro quando era in vita. “Se avessimo scritto quello che ci raccontava”, esclama uno di loro. Ma quelli del padre erano racconti orali, come quello della Sura dell’Elefante, declamato poco prima di essere assassinato dagli uomini di al-Fatah. Ed ecco che le leggende del Corano scoprono un diverso modo di restare in vita e si trasformano in conigli, uccelli ed elefanti animati, mescolando la preghiera con il sogno.

Ancora, un membro della comunità descrive la divisione tra Hamas e al-Fatah. Avverte il bisogno che le sue parole si imprimano su una superficie, così comincia a tracciare e ritracciare una “x” sulla sabbia: vuole che il concetto sia chiaro, che non si dimentichi. Savona lo ascolta, e sa che quella necessità di spiegarsi attraverso una traccia concreta verrà assorbita dall’animazione. Anche quel flusso di pensieri tornerà ad avere le sue immagini.

In L’immagine mancante (2013) di Rity Panh è il regista stesso a prestarsi al racconto, tornando nella sua città natale, Phnom Penh, per ricordare la marcia degli Khmer Rossi sulla capitale cambogiana e la dittatura di Pol Pot a cui, ancora bambino, riuscì a sopravvivere. In questo caso a farsi avanti è il suo monologo interiore, la sua memoria. Le immagini dell’infanzia “lo cercano” e gli chiedono di differenziarsi da quelle mediatiche, false, che non hanno davvero raccontato ma solo simulato i benefici del regime comunista nel suo Paese. La città è stata filmata dalla propaganda come se i cittadini non ci fossero, il lavoro forzato sostituiva anche “fisicamente” l’umano e la capitale, solo perché “vuota”, diventava “filmabile”.

È interessante che Pahn — o meglio la sua voce narrante — associ il vuoto al filmabile e l’umano al racconto individuale. La narrazione soggettiva non si può filmare: se nelle dighe e nelle risaie sono sparite anche le parole dei sopravvissuti, la forza del ricordo va preservata attraverso un nuovo medium. Si apre così, anche in questo caso, il luogo narrativo della forma animata, che questa volta prende la forma di statuette dipinte a mano che danno vita a paesaggi attraverso cui la camera si muove silenziosa, quasi a non voler disturbare con il cinema il monologo animato dei ricordi. E in effetti il mezzo cinematografico da Panh viene quasi demonizzato, descritto come alternativa alla verità (fatta eccezione per il cinema dell’infanzia, quello “ricordato” e dunque tradotto nella forma animata). Pol Pot con il cinema riesce a rubare le immagini — quella realtà “immortalata”, ma non sempre autentica, di cui dicevamo all’inizio — ma non può “rubare i pensieri”, le immagini interiori che un bambino ha raccolto nel dolore e ora esternalizza muovendo, da adulto, delle statuette di terracotta.

Dario Cecchi in Immagini mancanti descrive l’animazione di Panh come, appunto, un’«immagine mancante» che ci parla da un indefinito fuori campo, proiettando sulle rappresentazioni storiche della realtà le identità che in esse sembrano venire meno. A essere chiamato in causa è dunque lo sguardo attivo di uno spettatore che sia in grado di intercettare, nell’esperienza sensibile della ricezione, la “verità” delle due specie rappresentative, in un gioco dialettico in cui le une non funzionano senza le altre. Ma, volendo integrare questa considerazione con il ragionamento portato avanti fin qui, a “mancare” alla realtà cambogiana è in effetti il racconto soggettivo, quella «grammatica dell’enunciazione» che Cecchi ricollega al pensiero di Louis Marin e alla distinzione, in un’opera, tra la trasparenza del contenuto e l’opacità delle sue infinite interpretazioni. La forma animata è qui precisamente lo strumento attraverso cui la semiotica della realtà — il suo essere solo “rappresentabile” — si apre alla semantica del racconto singolare, che dischiude attraverso un monologo rammemorante la «messa in riserva di forza» contenuta nel reale.

Questo è tanto più confermato dal fatto che Panh decide di animare non solo le immagini “mancanti” in senso oggettivo — perché distrutte, dimenticate, falsificate — bensì anche, nel finale, quelle della sua casa e della sua città allo stato presente, con l’intenzione ancora una volta di raccontarle, non accontentandosi di riprodurle.

Si potrebbe parlare nel dettaglio di molti altri documentari animati costruiti su questo modello. Mi limito qui a citare qualche altro titolo. Il primo è Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman, in cui il regista anima il suo ricordo del massacro di Sabra e Shatila dell’82, nuovamente colmando il filmabile “vuoto” della realtà, che irrompe solo nella sequenza finale, con lo sforzo della memoria e del racconto, partendo da un’immagine onirica ricorrente e dalla sua analisi in sede psicanalitica. Rimanendo sull’animazione “di guerra”, un esempio recentissimo è Ancora un giorno (2019) di Raúl de la Fuente e Damian Nenow, già affrontato in questa sede, sulla lotta per l’indipendenza dell’Angola durante la Guerra Fredda. Sottolineiamo che l’animazione dà vita in questo caso agli eventi descritti nel diario del reporter Kapuściński, dunque ad un racconto sì scritto, ma pur sempre pensato nella forma monologante della narrazione di sé. O ancora l’ultimo Zemeckis di Benvenuti a Marwen (2018), adattamento del documentario Marwencol sul fotografo Mark Hogencamp, in cui l’universo fittizio dei pupazzi di Hogie non è altro che un doppio della realtà, un mondo animato che permette al protagonista di raccontarsi la propria storia cercando di elaborare il trauma del pestaggio subíto.

A questo proposito, è interessante tener conto anche di due documentariste italiane: Alina Marazzi e Sara Fgaier. La prima utilizza l’animazione in due suoi lavori: Vogliamo anche le rose (2007), sulla rivoluzione femminista degli anni ’70, dove i disegni di Cristina Seresini, oltre a fare da “sigla” e da interludi in alcuni momenti del film, animano uno dei racconti diaristici trovati dalla regista negli archivi di Pieve Santo Stefano; e Tutto parla di te (2012), sul problema della maternità, in cui il ricordo traumatico del suicidio della madre di Pauline (Charlotte Rampling) insieme al figlio neonato, ci viene raccontato attraverso l’animazione di una “casa di bambola”. In questo ultimo caso non abbiamo di fronte propriamente un film documentario, parliamo piuttosto di un pastiche senza possibilità (e necessità) di essere collocato in un preciso genere. E tuttavia, nello sconfinamento della realtà sulla finzione, ci è ancora più chiaro quanto l’animazione possa fare da ponte, proprio nel suo collocarsi nel dominio del racconto, tra le due dimensioni.

Fgaier porta se vogliamo l’associazione tra animazione e monologo/discorso interiore a un livello ancora ulteriore, decisamente più simbolico. In Gli anni (2018), film d’archivio ispirato all’omonimo romanzo di Annie Ernaux, la regista, che non può fare a meno di identificarsi nelle donne raccontate, integra al repertorio un’animazione artigianale in cui muove davanti alla camera i suoi capelli, le sue fotografie, i suoi oggetti più intimi. Un’animazione del sé che diventa in questo caso specifico flusso silenzioso della sua persona, costruzione materica del racconto del proprio “io”.

Ci sono poi due casi “limite”, su cui vale la pena soffermarsi un po’ più a lungo, in cui il monologo animato viene portato alle sue estreme conseguenze. Il primo è Waking Life (2001) di Richard Linklater, dove la tecnica dell’animazione in rotoscopio coincide con l’intera pellicola. Il protagonista del film, in un certo senso un documentario sul cinema del suo autore, è ascoltatore passivo di una serie incessante di elucubrazioni da parte dei più svariati personaggi, dentro un sogno — di nuovo la dimensione onirica, per eccellenza soggettiva — da cui non riesce a fuggire. Lo scarto che quest’opera compie rispetto ai film presi fin qui in considerazione è dato dal fatto che ad essere animato è l’atto stesso del racconto— solo in certi momenti i contenuti di quest’ultimo appaiono a fianco del parlante come “animazione nell’animazione” — in una definitiva saturazione dell’immagine animata a vantaggio della parola e di un logocentrismo che condanna l’azione a fissarsi nella speculazione teorico-filosofica (i monologhi affrontano le teorie baziniane del cinema, il concetto di libero arbitrio, la nascita del linguaggio e il rapporto di questo con le emozioni primitive).

L’altro caso è Is the Man Who is Tall Happy? (2013) di Michel Gondry, una conversazione con Noam Chomsky che il regista francese decide di animare. Il documentario esordisce con il disegno in movimento di un Gondry, animato e animatore, tutto intento a riprodurre figure su carta, mentre una scritta in bella grafia corsiva e recitata dalla voce del regista ci dice che la tecnica dell’animazione è stata scelta per esplicitare l’artificio di una qualsiasi interazione con una persona reale (in questo caso il celebre linguista). Lo sguardo filmico dell’intervistatore stravolgerà sempre la rappresentazione dell’intervistato. Così di Gondry e Chomsky sentiamo solo le voci (salvo qualche rarissimo momento), mentre davanti a noi si svolge, in forma animata, il loro discorso.

Quella che lo spettatore coglie è allora, come scrive Daniele Dottorini in La passione del reale, non «la verità unica di un soggetto, ma la verità della sua esposizione, della affabulazione di sé e del modo in cui questa affabulazione diventa […] immagine». Il linguaggio verbale a proposito del sé aderisce in ogni sua componente a quello animato. Tuttavia, quando il segno animato duplica quello della parola — ad una domanda del regista corrisponde ad esempio un punto interrogativo nell’animazione, o a una risposta negativa dell’interlocutore una “x” — la forma animata sembra non avere granché senso. Al contrario, quando il linguaggio di Chomsky abbandona la pura astrazione intellettuale (o i puri esercizi logico sintattici, come quello che dà il titolo al film) a vantaggio di metafore e giochi linguistici, la tecnica scelta dimostra la sua efficacia. Il linguaggio lascia spazio all’immagine: l’animazione trasforma una bocca in un organo genitale femminile, dà un corpo visibile e colorato all’asino di pietre su cui il bambino esercita la sua “continuità psichica”, prende per “vero” il paragone tra gli allievi e i contenitori di liquido mostrando tante piccole brocche che navigano su un ruscello.

Attraverso questi ultimi esempi appare chiara l’aderenza dell’animazione al parlato monologico e alla dimensione verbale del discorso. Ma in tutti i casi citati, dai fogli scarabocchiati dal sicario a quelli di Gondry, è certo che animazione e reale si incontrano nella prospettiva soggettiva del racconto, confermando una volta di più la tendenza del documentario contemporaneo — parafrasando Stella Bruzzi in New Documentary — ad un rapporto finalmente fluido con la drammatizzazione della realtà. I confini tra oggetto dato e soggetto creatore, documento e performatività, nell’utilizzo dell’animazione sono definitivamente «blurred» (sfumati), in un cinema che “del reale” sceglie la potenza affabulatoria della narrazione di sé.

Una piccola appendice conclusiva. Nella sospensione che ha caratterizzato i mesi della quarantena, fuori dalle nostre case non si poteva non filmare il “vuoto”. Anche in questo caso a rimanere, forte, è stato il racconto, la narrazione che ognuno, nel suo piccolo, ha potuto fare del proprio sé e della piccola bolla in cui ha dovuto rinchiudersi. Ecco perché Rebibbia Quarantine di Zerocalcare è uno degli esperimenti più riusciti della creatività ai tempi del virus. In una scia che da Spiegelman passa per Gipi e arriva a Persepolis di Marjane Satrapi, il fumettista ha ereditato il racconto monologante tipico della tradizione di questo formato parlando a ritmo serrato, senza quasi respirare, sul mondo disegnato che progressivamente è emerso dal suo quotidiano. Un monologo animato del presente, in cui tutti ci siamo specchiati.

Riferimenti bibliografici
S. Bruzzi, New documentary, Routledge, New York 2006.
D. Cecchi, Immagini mancanti. Estetica del documentario nell’epoca della contemporaneità, Pellegrini, Cosenza 2016.
D. Dottorini, La passione del reale, Mimesis, Milano 2018.

B. Nichols, Blurred boundaries, Indiana University Press, Bloomington 1994.

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